La psicologa: “La vegefobia esiste, alla base c’è la negazione”

Annamaria Manzoni spiega il fenomeno. La “paura” di chi la pensa diversamente da noi non è la sola matrice: esiste il timore di uscire dalle proprie abitudini.

Vegefobia

Si tratta di un tema controverso e complesso ma molto interessante, che tocca discipline diverse fra loro come la sociologia, la psicologia e la filosofia. Su Vegolosi.it abbiamo cercato di approfondire il concetto di “vegefobia”, prima con le parole di Leonardo Caffo, poi con quelle del sociologo Nicola Righetti , e ora lo affrontiamo insieme ad Annamaria Manzoni, psicologa e autrice di numerosi saggi sul tema del rapporto fra psiche, scelta alimentare e rapporto con gli animali, fra i quali segnaliamo “In direzione contraria” 2009 e “Sulla cattiva strada” 2014 entrambi editi da Sonda.

Possiamo davvero parlare di Vegefobia, esiste?

Di veganesimo, termine pressoché sconosciuto ai più fino a pochi anni fa, si parla ormai molto, se ne parla spesso senza cognizione di causa e se ne parla soprattutto male: le reazioni alla sua diffusione sono sempre più agguerrite ed è quindi più che lecito parlare di  vegefobia, con un termine recente, coniato su quello di omofobia: se quest’ultima designa il pregiudizio verso le persone con un orientamento sessuale diverso dall’unico considerato lecito, e alimenta lo stigma e forme conseguenti di prepotenza, analogamente la vegefobia raccoglie l’opposizione ad una scelta, che non è solo alimentare ma di vita. Non si deve dimenticare, però, che questi termini, etimologicamente, parlano di paura: l’opposizione, esibita come disprezzo, ha origine da una paura, che è inconscia, non riconosciuta. La scelta vegana, con ciò che significa in termini di rispetto per tutti gli esseri senzienti, spaventa in quanto è seria minaccia all’ordine delle cose, sovversiva, pur nella assoluta non violenza della sua espressione, in quanto mette in discussione abitudini, basate sullo sfruttamento di chi è debole, che vengono spacciate per stato di natura.

In che modo i mass media stanno comunicando la cultura vegana in Italia? 

Nella multiforme realtà della comunicazione, direi che il denominatore comune è la negazione della sofferenza animale: il focus del discorso è sempre spostato sulle ragioni del benessere umano con  uno sforzo enorme in direzione di messaggi rassicuranti: la carne è italiana, quindi tranquilli, che la salute è salvaguardata; i nostri polli sono felici, quindi non c’è motivo di coltivare fastidiosi sensi di colpa; i tonni vengono pescati ad uno ad uno; quindi, dai: nessuna strage in atto. In questa rassicurante narrazione dell’esistente, i vegani sono quegli estremisti che non sentono ragioni, sono quei talebani che costringono i loro figli ad una dieta da fame, sono quelli, pallidi e smunti, che si nutrono di  radici e poco più. La critica spesso è radicale, basata su interventi con presunzione di scientificità e spesso si serve dell’esposizione al dileggio, funzionale a buttare tutto in risata liberatoria, anche da parte di comici che vantano un’attenzione vivace ai diritti dei più deboli”. Inoltre, molto più spesso non è quello che si dice l’arma più micidiale, ma quello che non si dice, il silenzio sulla orribile realtà della sofferenza animale e sulla spasmodica ingiustizia alla base del loro sfruttamento.

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La dottoressa Annamaria Manzoni

A suo avviso quali sono i meccanismi psicologici attualmente in atto e che riesce ad evidenziare rispetto al tema del veganesimo? 

I meccanismi sono tanti, potenti, si rafforzano l’un l’altro (“Noi abbiamo un sogno“, Bompiani 2006). Vale la pena richiamarne uno per tutti, vale a dire  la negazione: anziché affrontare la questione animale, che è alla base del veganesimo, si nega che esista una questione animale, spacciando per naturale stato di cose quello che è invece un sistema organizzato di sfruttamento; quando pezzetti di realtà irrompono e impediscono di sconfessare ciò che è sotto lo sguardo, entra in gioco un’altra forma di negazione, quella delle proprie responsabilità: “Io cosa c’entro con tutto questo? “. Come dice il filosofo Galimberti, la negazione è alla base della immoralità collettiva, perché negare le situazioni, anziché affrontarle, impedisce di mobilitarsi e di  combattere le ingiustizie che in questo modo si perpetuano. Per inciso, la risposta all’”Io cosa c’entro con tutto questo?” è fornita dai ricercatori di Oxford che proprio in questi giorni hanno pubblicato uno studio in cui l’alimentazione vegana è indicata come la corretta risposta individuale, quella che ognuno è in grado di fornire, a quello che molti tendono ad interpretare come problema talmente grande a livello planetario, da non poter contemplare risposte dai singoli..

Esistono delle “regole” per poter comunicare la propria scelta alimentare e di vita in modo corretto, senza scatenare meccanismi di autodifesa da parte di chi ci ascolta? 

Davvero difficile stabilirlo: ogni comunicazione implica il passaggio dall’emittente al ricevente: ognuno ha le proprie modalità di espressione e contestualmente lo stesso messaggio viene recepito in modo diverso da persone diverse. Ognuno filtra ed elabora uno stesso tema coniugandolo con un bagaglio di convinzioni del tutto personale e con una sensibilità tarata su articolatissimi registri di emotività o invece dell’indifferenza. Questa enorme variabilità non permette di elaborare un modello comunicativo valido per tutti. Fondamentale comunque ricordare che i messaggi più violenti possono se mai essere utili per scaricare la propria aggressività, la propria frustrazione, non certo per ottenere risultati. Che possono essere perseguiti con la forza delle idee, con ragionamenti incalzanti e inattaccabili, con l’offerta di una lettura divergente dell’esistente. E con la capacità di porsi come modello, con comportamenti che inducano all’emulazione e non al rifiuto. Infine il ricorso alle immagini più sconvolgenti, che in qualche caso è ineliminabile, non può essere abusato né decontestualizzato, se non si vuole privarlo della forza comunicativa che gli è propria.

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