“Il mondo in un carrello”, perché il supermercato ci sta mentendo

Nel libro del giornalista Antonio Canu il viaggio dentro al mondo del supermercato, che ci ricorda quanto sia importante conoscere bene ciò che acquistiamo per scegliere in maniera consapevole

Non c’è forse profumo che, più di ogni altro, è capace di evocare i sapori della tradizione culinaria nostrana: quello del basilico, che cresce rigoglioso al sole del Mediterraneo. E che, invece, a guardare bene le sue origini, di mediterraneo non ha proprio nulla. Quelle amate foglioline che abbiamo sapientemente imparato a sminuzzare per farne il pesto “alla genovese” (secondo condimento più venduto al mondo), appartengono, in realtà, a una pianta indigena originaria del Punjab, in India, poi domesticata in una zona dell’Asia centrale e da lì, attraverso l’Egitto, arrivata fino a noi. E, ancora a proposito di pesto, anche per quanto riguarda i pinoli – altro ingrediente fondamentale della ricetta nella sua versione tradizionale ligure – difficilmente saranno quelli del nostrano Pinus pinea, il vero pino da pinoli, molto diffuso in tutta Italia. Per quegli strani meccanismi che governano il commercio mondiale, è più facile che oggi, nel condimento che prepariamo noi o acquistiamo già pronto, ci siano piuttosto i pinoli del Pinus koraiensis, il pino coreano, che costano meno e si sono presi grandi fette di mercato nella grande distribuzione (con buona pace dei rispettivi alberi di questa varietà che, invece, per la qualità del loro legname, vengono abbondantemente disboscati illegalmente, soprattutto in Russia).

Questa del basilico è solamente una delle tantissime storie raccontate da Alberto Canu nel suo ultimo libro, Il mondo in un carrello, edito da Il Saggiatore, ma abbastanza significativa dar fornire la chiave di lettura del viaggio intorno al mondo che si dipana pagina dopo pagina in questo saggio ricchissimo di informazioni: la storia di quello che acquistiamo ogni giorno è molto più complessa, e spesso ben diversa, da quella che immaginiamo. Ecco perché conoscerla è il primo passo per imparare a comprare “meglio”.

Un viaggio in un carrello

Il viaggio intorno al mondo di Canu, esperto in gestione di aree protette, giornalista e, non a caso, presidente di Wwf Travel, si svolge in un momento e lungo un arco temporale ben definito. Per la precisione, la sua durata è di 47 minuti: quelli che ci vogliono per riempire il carrello attraversando un intero supermercato della periferia romana – dal banco del fresco agli scaffali del vino. Nasce proprio da una spesa ai tempi duri del distanziamento e degli ingressi contingentati nei negozi, l’idea di provare a capire cosa c’è dietro (ma anche prima, durante e a margine) della spesa che facciamo ogni settimana. Ne emerge – scaffale dopo scaffale, confezione dopo confezione – una storia per nulla lineare, fatta di casualità, scoperte, opportunità, necessità e – ci dice Canu – anche di capricci, nella quale ai benefici che hanno portato la specie umana fino a qui corrispondono spesso molti lati oscuri, le cui conseguenze – la perdita di biodiversità in primis – sono ormai evidenti.

Qualcosa che non doveva accadere

Esemplificativa di questa storia che procede per salti, guardata attraverso un carrello della spesa, è quella degli alimenti per antonomasia: i cereali e i loro derivati, a partire dal pane. “I frumenti che conosciamo oggi sono il frutto di accadimenti spontanei avvenuti per caso e almeno in due momenti, al di fuori delle leggi naturali che conosciamo”, racconta il giornalista. Una storia intricatissima, fatta di incroci genetici in molti casi del tutto improbabili, se non impossibili sulla carta, come quello che mezzo milione di anni fa ha dato origine al farro selvatico, poi domesticato dall’uomo circa 10mila anni fa dando origine al Triticum dicoccum, il farro coltivato. Proprio il farro selvatico, racconta Canu, può essere considerato il progenitore di tutti i frumenti coltivati. Una storia simile a quella del Triticum durum, il grano duro con il quale facciamo la pasta, per intenderci, e del grano tenero, nati e selezionati anch’essi sulla base di un mix di caratteristiche genetiche casuali che li hanno resi molto adattabili dal punto di vista ambientale, e di conseguenza sfruttabili da parte dell’uomo.

Le vicende dei cereali e della loro evoluzione raccontate da Canu sono esemplificative di quanto poco sappiamo degli alimenti che portiamo in tavola ogni giorno e di come le storie che ruotano intorno al cibo siamo molto meno lineari, e spesso molto più casuali, di quello che pensiamo

Ecco, allora, raccontando queste vicende, sorgere una domanda che ribalta il punto di vista con il quale siamo soliti guardare all’alimentazione (così come a molte altre cose umane): “È stato l’uomo a scegliere le specie da coltivare oppure è accaduto esattamente il contrario?”, si chiede Canu. Il giornalista cita il saggio Sapiens. Da animali a dèi, nel quale lo storico Yuval H. Harari definisce l’agricoltura “la più grande impostura della storia. Circa 10mila anni fa, per una combinazione di fattori climatici e ambientali – scrive Harari – l’aumentata disponibilità di frumento indusse gli esseri umani ad abbandonare gradualmente la vita di cacciatori-raccoglitori per organizzare una nuova società sedentaria attorno ai campi coltivati, che consentivano di raccogliere il cibo e conservarlo. Fu così – è il cambio di paradigma – che i Sapiens furono domesticati dal grano più che domesticarlo, permettendo ai cereali di conquistare il Pianeta…”.
D’altra parte, ricorda Canu riassumendo le teorie – ancora dibattute – sull’evento spartiacque dell’evoluzione umana rappresentato dal passaggio dell’uomo da raccoglitore-cacciatore ad agricoltore-allevatore, è la storia stessa dell’agricoltura a rappresentare, per certi versi, un enigma. Gli studiosi si chiedono ancora se quel passaggio sia stato una scelta, un caso, un adattamento. E per molti, se scelta è stata, vista a posteriori, non è detto nemmeno sia stata la più fortunata. Perché se è vero che è stata proprio quell’evoluzione a garantire il successo della specie umana permettendo, con maggior disponibilità di cibo, di soddisfare le esigenze di una popolazione in continua crescita, è altrettanto innegabile – citando un altro grande studioso dell’evoluzione umana, Jared Diamond – che l’adozione dell’agricoltura e i cambiamenti alla struttura sociale venuti con essa siano stati in molti sensi “una catastrofe da cui non ci siamo più risollevati. Con l’agricoltura – evidenza Diamond – giunsero le gravi disuguaglianze sociali e sessuali, le malattie e il dispotismo, che danneggiano la nostra esistenza”.

Un incontro speciale

Simile a quello sull’agricoltura è il discorso sulla domesticazione degli animali. Raccontandone storie, aneddoti e curiosità delle diverse specie, dai galli alle pecore, Canu ci propone una lettura doppia del fenomeno: l’uomo ha sicuramente scelto le specie a lui più favorevoli da domesticare, ma in molti casi c’è stata una “attrazione reciproca”. Come nel caso del lupo: è questa la storia di una “empatia speciale” creatasi attraverso lo sguardo e la sclera bianca di entrambi gli individui, che ha permesso loro di entrare in contatto e comunicare senza versi né parole. Una “cordialità condivisa” che è stata alla base delle prime relazioni vantaggiose per entrambi: il riparo e gli avanzi di cibo che gli uomini fornivano ai lupi in cambio della loro compagnia come guardie o compagni di caccia. Il primo passo del processo di domesticazione – avviato tra 33mila e 11mila anni fa, forse in Cina – che portò dal lupo alla nascita del “migliore amico dell’uomo”, il cane.

Nella domesticazione degli animali, l’uomo ha scelto le specie a lui più favorevoli ma in alcuni casi, come per i cani, si è trattato anche di una “attrazione reciproca” basata su un “empatia speciale”

La mano dell’uomo

Ciò non toglie che, al di là delle casualità della natura e della genetica e dei salti della storia, la manipolazione umana delle condizioni naturali sia molto evidente nelle sue conseguenze. Una vicenda significativa che racconta Canu è quella dei cinghiali e dei maiali, delle origini di queste specie animali e della loro evoluzione nel corso dei millenni. È soprattutto, però, la loro storia più recente a dirci il peso dell’impronta dell’uomo. L’Italia, racconta il giornalista, per le sue caratteristiche ambientali, ha permesso l’isolamento genetico e quindi la caratterizzazione locale di specie autoctone di cinghiali. Peccato, però, che la storia recente abbia “rimescolato le carte, o meglio i geni”. Dopo un calo durante la Seconda Guerra Mondiale, la popolazione di cinghiali nel nostro Paese è tornata a crescere sia per condizioni ambientali favorevoli che per ripopolamenti con specie importate soprattutto dall’Est Europa. Ibridazioni che hanno portato alla scomparsa degli individui autoctoni. Sono aumentati anche i cinghiali allevati per scopi venatori, immessi sul territorio unicamente per essere cacciati. Ed ecco che trattandosi di animali dalle grandi capacità di adattamento, la popolazione ha iniziato a crescere rapidamente arrivando addirittura a raddoppiare in dieci anni. Così si spiega il curioso fenomeno dei cinghiali a spasso per Roma: sono sempre di più ma nessuno di essi, paradossalmente, è un vero cinghiale italiano perché, di fatto, questi non esistono più se non in “riserve” come quella di Castelporziano.

Semplificazione e comodità: ma a che prezzo?

Quelli che abbiamo visto sono soltanto alcuni dei moltissimi esempi presenti nel libro che raccontano dell’incontro tra l’uomo e le piante e gli animali, dell’utilizzo che ne è seguito lungo “un processo lento, stimolato dalle condizioni e poi voluto, spesso casuale o involontario, che per forza di cose ha cambiato il pianeta”, spiega Canu. Il mondo del supermercato, di questo processo lento, esprime due delle direttive principali: semplificazione e comodità. La semplificazione che ha portato alla nascita dei market, nei quali ogni cosa è comodamente a disposizione, è la stessa che ha guidato l’evoluzione dell’agricoltura: per ottenere sempre di più, sono state selezionate le specie più vantaggiose tra quelle possibili. Ma il prezzo è stato quello di una irreversibile perdita di biodiversità causata dall’impoverimento genetico delle diverse specie. Canu cita un Rapporto della Fao del 2019 secondo il quale delle circa 6mila specie di piante coltivate per il cibo, meno di 200 contribuiscono oggi in modo sostanziale alla produzione alimentare globale e solo 9 rappresentano il 66% della produzione totale. “Per dirla diversamente – fa i conti il giornalista – ci sono più di 50mila piante commestibili nel mondo, ma solo 15 di esse forniscono il 90% dell’energia alimentare mondiale. Il riso, il mais e i grano ne rappresentano, da soli, i due terzi”. Sempre secondo la Fao, nel XX secolo è stato perso il 75% della diversità genica.
Di fatto – altro paradosso della storia umana – abbiamo spinto talmente oltre quell’agricoltura che ci ha permesso di affermarci come specie da impoverire le specie vegetali a tal punto da minare non solo il loro legittimo diritto alla sopravvivenza, ma addirittura mettendo in discussione la nostra stessa, di sopravvivenza.

Se consumiamo più di quello che mangiamo

Il conto, infatti, è presto fatto. Mantenendo un tasso di crescita simile a quello attuale, la popolazione mondiale dovrebbe toccare quota 9,7 miliardi di persone nel 2050: troppe per poter essere sfamate tutte, se consideriamo che già oggi sfruttiamo le risorse naturali a un ritmo di 1,7 superiore alla capacità di rigenerazione degli ecosistemi. Lo mette a fuoco chiaramente Canu quando passa, col suo carrello, davanti al banco del pesce: “Stiamo vivendo una crisi senza precedenti di pesca eccessiva e gestione impropria delle risorse. Oltre un terzo degli stock ittici di tutto il mondo viene sovrasfruttato e in generale quasi il 90% degli stock ittici marini è in crisi“. In Europa, e in Italia, siamo messi particolarmente male, soprattutto se consideriamo che mediamente, a luglio, l’Europa ha già ultimato i propri stock ittici interni ed è costretta importare pesce da fuori il Continente (il 50% da Paesi in via di sviluppo). Nel nostro Paese, le “scorte” annuali dei nostri mari finiscono ancora prima, all’inizio di aprile, con l’80% del consumo concentrato su una dozzina di specie, come nasello, triglie, spigole e seppie, catturati per lo più con la pesca a strascico o dai grandi pescherecci.

Tutto in un carrello

Nel viaggio di Antonio Canu c’è anche il mondo “fisico” del supermercato a raccontarci contraddizioni e paradossi dell’oggi. I continui stimoli visivi, l’assenza di finestre che fa perdere la percezione del tempo e rimanere più a lungo tra gli scaffali, il bancone de fresco subito all’ingresso per dare “un’idea di prossimità e di cibo sano” e, ancora, il posto sempre un po’ nascosto di sale e zucchero, per cercare i quali si è costretti a soffermarsi di più nelle corsie acquistando anche altro. E poi le infinite confezioni, soprattutto nel reparto del fresco, sapientemente costruito intorno alle 5 “gamme” di prodotti, dai vegetali sfusi fino agli alimenti cotti e confezionati sottovuoto. Imballaggi che inquinano sì, ma rappresentano anche quella semplificazione degli acquisti che “banalizza il rapporto tra terra e consumatore”.

Non è un caso che lo stesso Canu, in apertura, dichiari di preferire “la spesa su strada e nelle piccole botteghe, più vicina al significato di sostenibilità e al senso di scambio che è alla base di un acquisto”. Per scegliere, però, dove e come comprare, occorre quella consapevolezza che, anche attraverso questo suo viaggio intorno al mondo e lungo la storia, è bene che ciascuno di noi impari a costruirsi, spesa dopo spesa.

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