Rewilding: lasciamo che la natura faccia il suo corso

Scopriamo cos’è il “rewilding”, un approccio alla conservazione degli ecosistemi che mette l’uomo in secondo piano, in via di sperimentazione anche sugli Appennini

Che cosa succederebbe se gli esseri umani facessero un passo indietro nella conservazione ambientale? Sembra un controsenso, un freno al percorso verso l’obiettivo finale di salvaguardia della natura. In realtà, il rewilding è uno degli approcci alla sostenibilità più innovativi e interessanti, tanto da essere annoverato nella lista di metodi di ripristino ambientale stilata dalle Nazioni Unite. Ecco in cosa consiste. 

Le tre “C” del rewilding

Il presupposto è semplice: ridimensionare il nostro approccio antropocentrico alla conservazione della natura, lasciando che sia essa stessa ad autodeterminarsi. Se la linea d’attacco attuale è quella di gestire gli ecosistemi “dall’alto”, impostando obiettivi specifici e lavorando per raggiungerli, il rewilding prevede di lasciare che “la natura faccia il suo corso”, in senso letterale. L’unica spinta iniziale sarebbe la reintroduzione della megafauna, ossia dei grandi carnivori ed erbivori, negli habitat che storicamente la ospitavano: lupi, orsi, rinoceronti e ippopotami potrebbero ripopolare le foreste americane ed europee, aiutati (e “aiutanti”) dalla reintroduzione di altre specie animali e vegetali. Carnivores, carnivori, in effetti è una delle tre “C” a fondamento del rewilding: le altre due sono cores, nuclei, ovvero le aree di natura incontaminata, e corridors, cioè i corridoi ecologici che consentono alla fauna di migrare.

Il termine rewilding potrebbe essere tradotto con “ri-naturalizzazione”, “ri-selvaggiamento”, e nonostante sia stato riportato in auge solo di recente, circola nel dibattito da oltre trent’anni, a partire da un articolo sull’ambientalismo radicale scritto dalla giornalista Jennifer Foote. Il fenomeno venne poi studiato da biologi ed ecologi nel corso degli anni ‘90 e gli scienziati individuarono nei lupi reintrodotti nel parco di Yellowstone nei primi anni ‘30 la prova dell’efficacia di questo metodo.

Ma è nel 2013 che viene stilato quello che si può definire il manifesto del rewilding, grazie all’opera del giornalista e attivista britannico George Monbiot: “Selvaggi” è il libro che ci racconta di un futuro imprevedibile, dove i castori, che sono tra le specie chiave per la rinaturalizzazione degli habitat, costruiscono dighe per cacciare e, come conseguenza, gli elefanti calpestano i boschi europei dopo millenni. 

La terra di umani ed elefanti

“Il movimento ambientalista ha cercato di congelare nel tempo i sistemi viventi. Ha tentato di gestire la natura come si bada a un giardino”: Monbiot denuncia l’idea dell’essere umano inteso come deus ex machina dell’ecologia contemporanea, che prevede più compromessi che libertà, limitare i propri consumi, cambiare le proprie abitudini, e agire in fretta. Il rewilding, da questo punto di vista, è una vera e propria rivoluzione: non ha obiettivi finali, non ha un ideale di ecosistema a cui aspirare, si affida alla speranza del futuro anziché ai ricordi del passato. E l’esclusione di Homo Sapiens non è una resa o un’estraniazione di fronte alla forza della natura, bensì un nuovo tipo di coinvolgimento, la scrittura di un nuovo rapporto tra umani, altri animali e ambiente circostante.

A partire dai terreni agricoli, che non dovrebbero necessariamente essere restituiti alla wilderness in maniera indiscriminata, ma selezionati in base alla produttività: Monbiot propone di lasciare alla natura quelli meno produttivi e che richiedono più sforzi economici per essere mantenuti. Del resto, è stimato che entro il 2030 gli agricoltori europei abbandoneranno trenta milioni di ettari di terra, uno spazio sufficiente a reintrodurre sul Vecchio Continente animali come lupi, orsi e linci (già presenti in popolazioni molto piccole) ma addirittura leoni, iene, ippopotami e rinoceronti.

L’autore si spinge oltre: avanza l’ipotesi che certi alberi come querce, frassini, aceri, castagni e noccioli si siano evoluti in risposta a una stretta relazione con i pachidermi. Queste specie arboree hanno un fusto capace di rigenerarsi una volta spezzato, il che potrebbe essere una risposta all’abitudine degli elefanti di urtare i tronchi con le zanne oppure sradicare l’intera pianta. Una forte provocazione, ma anche una “idea che pervade il mondo di nuove meraviglie”.

Il rewilding nel mondo

Il tono provocatorio di Monbiot si concilia con il fatto che tra la comunità scientifica non si è ancora raggiunto un consenso attorno al rewildingIn effetti, oltre al caso spontaneo dei lupi del parco di Yellowstone, i progetti di studio sul metodo non sono ancora conclusi. Numerose, tuttavia, sono le aree di conservazione nel mondo deputate a iniziative di rewilding, in primis proprio Yellowstone. Sempre in Nord America gli sforzi si concentrano per reintrodurre bisonti, salmoni, orsi, e alci ma anche habitat interi come le grandi praterie, mentre in Australia si lavora per i marsupiali, in particolare i diavoli della Tasmania. In Europa, i più grandi progetti coinvolgono la Valle del Côa in Portogallo, i Carpazi Meridionali, il delta del Danubio, i monti Rodopi in Bulgaria, il delta dell’Oder e la Lapponia Svedese. 

E in Italia

Anche in Italia esiste un progetto di rewilding: quello degli Appennini Centrali. Lo scopo è il recupero di lupi e orsi (in particolare l’orso bruno marsicano) nelle faggete caratteristiche della catena, che al momento sono la casa di erbivori come cervi e cinghiali. L’associazione Rewilding Europe lavora a stretto contatto con le comunità locali in Abruzzo, Molise e Lazio per supportare la fauna selvatica nei corridoi naturali, cercando allo stesso tempo di limitare eventuali danni ai paesi interessati e ai loro abitanti. E anche gli abitanti stessi traggono beneficio dalle attività di rewilding, perché esse comportano la creazione di nuovi posti di lavoro a supporto del territorio: l’installazione di punti di osservazione, recinti e segnaletica stradale è tra le mansioni più importanti dell’azione di salvaguardia, così come il ripristino di aree danneggiate, la promozione delle attività, la sensibilizzazione della popolazione. Infatti, se è vero che il rewilding non si pone obiettivi e scadenze in termini ecologici, ciò che invece auspica è un aumento di consapevolezza ambientale da parte non solo dei cittadini ma anche delle istituzioni, che potrebbero trovare in questo metodo la chiave per la protezione del proprio immenso patrimonio naturale.

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