“Naturale”: cosa significa davvero questa dicitura sui prodotti alimentari

Cosa sono davvero gli alimenti “naturali” che acquistiamo quando facciamo la spesa? Una guida per orientarci tra claim pubblicitari, disposizioni di legge e risvolti legati alla salute

Compare su confezioni e pubblicità portandosi dietro un ventaglio di significati ampio e stratificato. Richiama un’idea di salute e semplicità che non sempre corrisponde al vero, e sul quale il marketing dei prodotti alimentari ha imparato a giocare. Ma cosa si intende davvero con la parola “naturale” quando si parla di cibo? Per quella che dovrebbe essere la più semplice delle parole, la risposta non è poi così scontata.

Naturale, ovvero…

Partiamo, dunque, dalle basi: “Di cosa che è in natura, che è secondo natura, conforme all’ordine della natura“. Così recita il dizionario Treccani nel definire la parola “naturale”. Per la verità, la definizione riportata è assai più lunga e articolata e viene sviscerata sotto le più diverse accezioni. Eppure, nel senso comune, è questo il significato prevalente, lo stesso che in effetti applichiamo anche quando parliamo di cibo. Non a caso, tra i tanti esempi che il più eminente dei vocabolari riporta c’è anche quello di un “succo di frutta naturale”, inteso come “senza additivi e conservanti”. Ma basta poco per capire che, quando si parla di alimentazione, la faccenda è molto più complessa di così e investe questioni diverse, dai sistemi di produzione alla salute, dagli impatti ambientali al tema dei diritti fino alla tutela dei consumatori.

“Naturale” per legge

Proviamo, allora, a superare le accezioni generiche e a entrare nel merito: quando acquistiamo un prodotto e leggiamo sopra la confezione “naturale”, cosa dovremmo aspettarci? Nemmeno la legge lo sa, è la prima cosa che scopriamo. “Non esistono criteri specifici per definire ‘naturale’ un prodotto alimentare tant’è che la questione è stata posta anche a livello europeo sia da organizzazioni di imprese e di cittadini sia da parlamentari che ne chiedono la normazione essendo evidente il continuo e crescente abuso che ne viene fatto a fini commerciali”, ci spiega Paolo Carnemolla segretario generale di FederBio. Ad oggi, non esiste cioè, né a livello nazionale né europeo una regolamentazione ad hoc sull’uso di questa parola (al contrario di quanto avviene per altri tipi di claim). “Al momento – prosegue Carnemolla – le risposte della Commissione europea hanno sempre precisato che l’unica possibilità di utilizzo legale del termine ‘naturale” per un prodotto alimentare è quella prevista dal Regolamento Ce 1924/2006 nell’ambito dei claim nutrizionali e salutistici”.

Questo Regolamento norma una serie molto lunga di diciture alimentari, dal “senza grassi” al “fonte di proteine” fino al “leggero”, e spiega in che termini “naturalmente” e “naturale” possono essere usati in applicazione a questi claim “esclusivamente in relazione al sistema di produzione o trasformazione di un alimento“. Si può, dire, cioè, per esempio, che un alimento è “naturalmente senza grassi” se tale è senza che intervengano specifici processi di trasformazione. Di fatto, però, la parola “naturale” in sé non è normata. Ed è in questo ampio spazio di senso, lasciato libero e discrezionale dalle normative, che il marketing fa la sua partita.

Ma naturale fa bene?

Tra le accezioni che la “naturalità” si porta dietro c’è sicuramente quella legata alla salute. Se una cosa è “naturale”, siamo indotti a pensare, “farà anche bene”. Ma è davvero così?
“‘Naturale’ è un termine talmente ampio e di facile interpretazione da essere fortemente discusso. Dal punto di vista nutrizionale, non è detto che tutto ciò che è naturale sia qualcosa di positivo per la salute“, sottolinea Elena Dogliotti, biologa nutrizionista e divulgatrice di Fondazione Umberto Veronesi. In gioco, anche per quanto riguarda l’impatto sulla salute, entrano diversi fattori: processi di lavorazione del cibo, quantità, abitudini di consumo.

Un esempio su tutti: lo zucchero: “È chiaramente un prodotto naturale, che sia estratto dalla canna o dalla barbabietola. Poi, in commercio posso trovarlo in forme più o meno lavorate che lo rendono più o meno raffinato. In entrambi i casi – analizza la biologa – ci sono dei pro e dei contro. Se lavoro lo zucchero, agirò con mezzi chimici che lo rendono ‘meno naturale’. Allo stesso tempo, tuttavia, la lavorazione fa sì che si perdano delle impurità che potrebbero non essere positive per l’organismo. In ogni caso, più o meno “naturale” che sia, lo zucchero è un prodotto che dovrei limitare sempre, come ci indicando tutte le linee guida in fatto di nutrizione (per l’Oms anche al di sotto del 5% dell’energia giornaliera)”. Lo stesso discorso vale, per esempio, per il sale. Ma è se si guarda ai prodotti industriali che si colgono più chiaramente i paradossi legati a un’idea di “naturalità” dai contorni poco definiti. Pensiamo agli “aromi naturali” usati nei prodotti confezionati, come quello di vaniglia. In base ai Regolamenti europei, queste sostanze possono essere definite tali quando per almeno il 95% sono ricavati da un prodotto naturale. “Parliamo di qualcosa che esiste in natura, ma che viene ricreato in maniera artificiale. Quindi, cosa significa in questo caso ‘naturale’?», si domanda la biologa.

E poi c’è il tema della sicurezza alimentare: non si può, infatti, dimenticare che i processi di lavorazione del cibo, se da una parte ne alterano la “naturalità”, dall’altra sono quelli che, con il ricorso alla tecnologia, ne hanno alzato nel tempo il livello di sicurezza e conservazione e, di conseguenza, la disponibilità.

I prodotti di origine animale

Il discorso sul “naturale” si complica ulteriormente quando si parla di prodotti di origine animale: come possono, infatti, essere considerati “naturali” alimenti che derivano da processi di produzione spinti come quelli che avvengono nei grandi allevamenti intensivi? La questione qui supera il livello lessicale e investe l’etica, in prima battuta, e a seguire, nuovamente, la salute: «La dicitura ‘allevato naturalmente’ cosa può significare? È chiaro che sono due termini che possono andare d’accordo fino a un certo punto. In generale, poi, più un prodotto è lavorato, più il termine ‘naturale’ lascia il tempo che trova. Le carni lavorate – ci ricorda ancora Dogliotti – sono una categoria di alimenti posta sotto l’occhio attento delle linee guida internazionali per la prevenzione dei tumori: non a caso, è l’unica classe alimentare alla quale è stata attribuita una relazione di aumento di incidenza di queste patologie dimostrata scientificamente”.

C’è bisogno di chiarezza

Risulta evidente, dunque, come anche sul più scontato dei termini serva fare chiarezza. È quella che chiede da tempo, per esempio, l’ong Safe – Safe Food Advocacy Europe, che ha realizzato un lungo report nel quale evidenzia il problema dell’uso ingannevole del termine “naturale” e la mancanza di informazioni sull’etichettatura. Con la campagna We Value True Natural Campaign chiede da anni all’Unione Europea di colmare il vuoto legislativo europeo su questo tema. “Non tutti i prodotti con il claim naturale lo sono davvero. La lista degli ingredienti può contenere ingredienti che sembrano naturali, ma che sono ottenuti attraverso processi chimici e contengono sostanze come additivi, coloranti, glutammato e molte altre ancora. Noi consumatori – spiega l’ong – abbiamo il diritto di avere accesso a prodotti più salutari e più sostenibili“.

La chiarezza di informazioni è collegata proprio alle istanze di maggior sostenibilità in campo alimentare che l’Europa dice da tempo di voler portare avanti con la strategia Farm to Fork all’interno del Green New Deal. E garantire un’etichettatura corretta, ribadisce l’ong, “è un passaggio fondamentale per aiutare i consumatori a optare per opzioni più sostenibili”.

Come orientarsi

Ma in attesa di un’apposita normativa, se il senso comune del termine “naturale” lascia, come abbiamo visto, ampi spazi di interpretazione (e, di conseguenza, di manovra, al marketing), e la legislazione non ci aiuta, come orientarsi, allora, quando facciamo la spesa? La regola è sempre la stessa, ci ricorda la biologa Dogliotti: “Stare attenti all’etichetta che riporta ingredienti e additivi indicati in ordine decrescente, ignorando i claim meramente pubblicitari e verificando dalla tabella nutrizionale due aspetti fondamentali: la percentuale di zuccheri sui carboidrati, che anche nel caso dei dolci non dovrebbe superare il 20%, e le tipologie di grassi presenti, preferibilmente mono e polinsaturi piuttosto che saturi”. Da un punto di vista nutrizionale, è “la totalità dell’alimentazione nel suo complesso che fa la differenza. Al di là delle definizioni, dobbiamo sempre interrogarci se la nostra dieta risponda ai requisiti base di un’alimentazione preventiva, che è quella a base prevalentemente vegetale. E, anche più sostenibile, aspetto non più trascurabile oggi”.

Iscriviti alla newsletter e ricevi subito l'ebook gratis

Quattro ricette MAI pubblicate sul sito che potrai scaricare immediatamente. Puoi scegliere di ricevere una ricetta al giorno o una newsletter a settimana con il meglio di Vegolosi.it.  Iscriviti da qui.

Sai come si fa la salsa zola vegan? Iscriviti alla newsletter entro e non oltre l'11 maggio e ricevi subito la video ricetta

Print Friendly
0