Piante velenose: dal piatto alla letteratura, una storia da brividi

Le piante potenzialmente letali sono moltissime, anche fra quelle che usiamo come cibo. Un mondo pieno di segreti, fonte d’ispirazione per gli scrittori, dal quale, tutt’ora, la medicina attinge molti dei suoi principi curativi

Beatrice è “velenosa”: il suo tocco, persino il suo respiro possono uccidere chi le sta vicino: un regalo che il padre – uno scienziato folle ed esperto di veleni – le fa somministrandole piccole dosi di veleni fin dalla nascita rendendola così immune al pericolo verde ma facendola diventare una minaccia per gli altri. Il giardino di Rappaccini “luogo di inenarrabile orrore” viene raccontato nel 1844 dall’autore americano Nathaniel Hawthorne nel racconto breve “La figlia del dottor Rappaccini” e rappresenta bene uno dei modi nei quali il misterioso e intrigante mondo dei veleni vegetali è diventato ossessione in alcuni periodi della storia e dell’arte umani, partendo da Ovidio, scivolando lungo Shakespeare, passando per Arthur Conan Doyle e Agatha Christie.

Uno strumento di difesa

Del resto era inevitabile che così fosse. Il regno vegetale rappresenta in percentuale il 97,3% del mondo vivente (giusto per un paragone, il regno animale rappresenta, invece, il 2,7% mentre noi, homo sapiens, solo lo 0,1%). La sua caratteristica più evidente è l’immobilità ed è da qui che nasce, evoluzionisticamente parlando, la sua necessità di trovare modalità di difesa ingegnose dagli attacchi di uccelli, mammiferi e insetti per poter sopravvivere e propagare la propria specie. La tossicità, quindi, è uno strumento e, a volte, un segnale che però la nostra specie ha imparato a conoscere molto lentamente, prima per tentativi ed errori, poi attraverso gli studi accurati dei primi esperti di piante e, infine, attraverso la conoscenza sempre più approfondita sulla chimica.
Per assurdo, però, oggi, quello che tutti noi sappiamo delle piante velenose è andato praticamente perduto a livello di cultura generale e a studiarle e conoscerle per bene sono poche figure ben specializzate. Eppure anche molte delle piante che usiamo per abbellire case e terrazzi o, peggio ancora, quelle che mangiamo, hanno una storia parecchio pericolosa.

I misteri velenosi della dispensa

In inglese si chiamano nightschades, in italiano invece sono le solanacee, una grande famiglia di piante diffusa in quasi tutto il mondo con 2.500 specie e oltre 100 generi che presenta però un lato oscuro: alcune piante di questa famiglia sono commestibili, come il pomodoro, il peperoncino o le melanzane, altre invece contengono tossine sfruttate durante i secoli da streghe e assassini. Ci sono la belladonna e la mandragora, per esempio. La loro storia attraversa i secoli: ecco le “spugne soporifere” imbevute di mandragora nel Medioevo usate come anestetico, e la belladonna , bacca simile ai mirtilli ma ricca di atropina, che in dosi elevate conduce alla paralisi del sistema nervoso, mentre ancora oggi, in dosi leggere, viene utilizzata per dilatare le pupille al fine di visite oculistiche o interventi chirurgici.

Le bacche di aconito sono ricche di atropina, sostanza oggi usata in oculistica che, in dosi eccessive, può portare alla paralisi del sistema nervoso

L’anice stellato giapponese, invece, non deve essere mai confuso con l’innocuo cugino per tisane corroboranti e profumate. Questa tipologia di anice è stata erroneamente utilizzata negli anni 2000 in alcuni prodotti prontamente richiamati sia in Europa che in America e Asia. I fiori delle due piante sono molto simili fra loro, ma l’anice giapponese contiene composti tossici appartenenti al gruppo di lattoni sesquiterpenici che intaccano il sistema nervoso e quello respiratorio.

Se quasi tutti, poi, sappiamo che nei noccioli di pesche, albicocche, ciliegie, mandorle amare e prugne si trova il cianuro, forse non è così noto che anche l’innocuo sorgo, cereale povero ma che ultimamente è stato riscoperto anche nella cucina di tutti i giorni, ha un segreto. Le foglie e gli steli di questa pianta contengono glicoside cianogenico durrina, e perciò devono starne lontani gli animali al pascolo che rischiano intossicazioni anche molto gravi.

Che dire poi delle care e vecchie patate? Questa pianta, super resistente, verdissima e dai bei fiori bianchi della quale consumiamo solo i tuberi, contiene glicoalcaloidi la cui produzione viene stimolata dalla luce. Ecco perché i tuberi destinati al consumo devono essere tenuti al riparo dalla luce. Se vedete una patata un po’ verde lasciatela dove si trova, gettatela oppure piantatela nel vostro giardino: la presenza di clorofilla sul tubero, infatti, è segnale dell’innalzamento delle tossine al suo interno. Possiamo comunque stare tranquilli: quando tossica, una patata assume un sapore talmente amaro da non renderla commestibile.

Fu con la cicuta, forse il più famoso dei veleni, che venne eseguita, secondo le leggi dell’epoca, la condanna a morte di Socrate

Anche la famiglia delle leguminose, vastissima con le sue circa 19.500 specie suddivise in 750 generi, nasconde le sue pecore nere. Ecco per esempio i fagioli di yopo con i loro effetti allucinogeni, la senna con effetto purgante, e la cicerchia. Quest’ultima chiamata anche “pisello d’India”, contiene un amminoacido libero che risulta tossico ma solo se consumato in grandi quantità e se i semi non vengono correttamente trattati con ammollo e bollitura. Rappresentando una componente minoritaria della dieta, i danni neurologici determinati da questo legume sono stati registrati nella storia solo durante gravi carestie che ne facevano soggetto principale della dieta.
Anche carote, prezzemolo, cumino, finocchio e anice fanno parte di una famiglia di piante dalla storia poco raccomandabile: le apiaceae. Nell’album di famiglia di questa specie troviamo anche la foto della cicuta, famosa per essere stata uno degli ingredienti del beverone mortale con il quale nell’antica Grecia si eseguivano le condanne a morte, come avvenne per il filosofo Socrate.

Pagine velenose

Troppo controversi e affascinanti per non diventare centro di narrazioni e avventure, i veleni di origine vegetale sono stati un ricco bacino dal quale scrittrici e scrittori di tutte le epoche hanno attinto a piene mani.
L’erba del diavolo, o aconito, pianta dai meravigliosi fiori violacei e dalle temibili radici che possono indurre paralisi fu l’ingrediente del veleno che Medea preparò nelle Metamorfosi di Ovidio per accogliere Teseo, figlio legittimo del re Egeo, ora suo marito, per evitare che il trono andasse a lui e non al suo erede. Secondo la mitologia greca, questa pianta nacque dai semi sparsi dalla bocca di Cerbero, cane infernale della regina dell’Ade, quando la sua bava rabbiosa veniva sparsa per la Grecia mentre Ercole lo conduceva sulla Terra.

È sempre l’aconito a dare una morte velocissima all’eroe tragico Amleto nell’omonima tragedia di William Shakespeare: la punta della lama di Laerte ne è intrisa e una sola ferita decreta la fine dell’eroe e la conclusione di una delle storie più incredibili della letteratura mondiale nonché di una delle più intrise di veleno; anche la madre di Amleto, infatti, muore avvelenata, e lo stesso padre del principe di Danimarca aveva fatto la medesima fine, dando il via alla storia.

Del giardino letale del dottor Rappaccini narrato nella metà dell’Ottocento da Howthorne abbiamo già accennato: la storia di Beatrice, figlia avvelenata e velenosa a sua volta, “scoperta” da Giovanni, studente dell’Università di Padova la cui casa affaccia proprio sul giardino, narra ancora della passione per veleni e intrugli vegetali di grandi autori.

L’aconito, o erba del diavolo, è stato resa celebre da grandi storie letterarie come quella di Medea e Amleto

Trasformata in letteratura, ma tratta da un caso vero di cronaca nera del Seicento, è la vicenda narrata da Alexandre Dumas padre in L’avvelenatrice, testo pubblicato nel 1841 e che fa parte di brevi racconti definiti Crimes Célèbres. Il libro narra la vicenda di Marie Madeleine Marguerite d’Aubray, marchesa di Brinvilliers, aristocratica francese del Seicento accusata di tre omicidi nell’ambito del famoso caso parigino “L’affare dei veleni”. Fu condannata a seguito di alcune lettere scritte dal suo amante, Godin de Sainte-Croix, e dopo una confessione sotto tortura.

Sempre nello stesso periodo storico della marchesa, merita una citazione anche la storia vera di Giulia Tofana, cortigiana e fattucchiera originaria di Palermo che mise a punto il veleno che da lei prese il nome (l’acqua Tofana), citato sempre da Dumas nel suo Il conte di Montecristo: conteneva anche il succo estratto dalle bacche della belladonna.

Forse è anche in base a questi curricula che l’antropologo, medico e per alcuni padre della criminologia moderna, Cesare Lombroso affidò alle donne il ruolo preminente di avvelenatrici sostenendo in La Donna delinquente: la Prostituta e la donna normale che il gentil sesso preferiva questo metodo poco cruento e che necessitava di grande pianificazione, per compensare la mancanza di forza fisica.

Non dimentichiamoci poi dei veleni “legittimati”, come il tabacco, potentissima pianta sempre dalla famigerata famiglia delle solanacee che con la sua tossina che crea dipendenza, la nicotina, venne introdotta in Europa dalle Americhe. Con lei, anche la cocaina che aveva come obiettivo, fra la metà e fine dell’Ottocento, una ricreazione socialmente accettata. Pensiamo, per esempio, al personaggio creato da Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes, che di nicotina e cocaina era uno strenuo consumatore – con grande contrarietà del buon Watson. Nelle prime pagine di Il segno dei quattro, uno dei quattro romanzi che vedono protagonista Holmes, l’uso delle cocaina viene raccontato così: “Temo che, fisicamente parlando, l’influenza della cocaina sia dannosa. Ma io la trovo uno stimolo chiarificatore dell’intelletto tanto forte che, a mio avviso, i suoi effetti collaterali sono del tutto trascurabili”. Ed è sempre in questo romanzo che Doyle usa di nuovo il veleno come potente arma letale per uccidere uno dei due gemelli Sholto: una spina intinta nella stricnina e sparata da una cerbottana decreta la morte, con il sorriso sul volto, del timido Bartolomeo.

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