Liberazione animale: esiste la carne felice?

Se l’obiettivo delle associazioni animaliste è la liberazione animale, la strada percorsa per raggiungerlo può essere diversa…

Esiste una “carne felice”, prodotta con metodi non cruenti? Qual è il pensiero di alcune tra le più importanti associazioni animaliste che operano in Italia sugli allevamenti intensivi? Cosa ne pensano, invece, degli allevamenti “bio”? La redazione di Vegolosi.it ha posto queste e altre domande a Matteo Cupi, direttore di Animal Equality Italia,  a Claudio Pomo, responsabile delle campagne di comunicazioni dell’associazione Essere Animali e, infine, al team di attivisti che seguono la corrente di pensiero della Bio-violenza, che denuncia con forza, contrastandola, la “diminuzione della violenza” tipica degli allevamenti biologici e non intensivi. Ecco cosa ci hanno risposto.

Cosa pensi degli allevamenti intensivi?

Matteo Cupi: Penso che gli allevamenti intensivi siano uno dei maggiori crimini della società odierna, perché provocano senza alcuna eccezione estrema sofferenza, morte prematura e problemi psicologici. Parliamo di condizioni veramente difficili da immaginare se non si vedono coi propri occhi. Tra gli esempi più significativi ci sono gli allevamenti per la produzione di uova, dove le galline sono allevate in gabbia, ogni animale ha uno spazio vitale paragonabile ad un foglio A4 ed il pavimento di queste gabbie è di rete metallica. Un altro esempio è quello delle gabbie di gestazione negli allevamenti di maiali, talmente strette che le scrofe non possono neppure girare su se stesse. La scrofa viene tenuta in gabbia finché i suoi piccoli sono svezzati a 3-4 settimane di vita, per poi essere inseminata nuovamente. Ecco, lo possiamo paragonare a dover viaggiare in aereo per tutta la vostra vita seduti in ‘classe economica’ senza avere la possibilità di potersi girare o alzarsi in piedi. Una vera e propria tortura, non credete?

Claudio Pomo: Se dovessimo spiegarli a qualcuno che arriva da un altro pianeta o dal passato credo che resterebbe esterrefatto per la brutalità con cui siamo riusciti a stipare miliardi di animali in spazi confinati e angusti e trasformarli in macchine da riproduzione o da ingrasso. Ma anche per il fatto che le specie animali più presenti numericamente sul pianeta non siano nelle savane, nelle foreste o nelle montagne, ma chiuse dentro capannoni di cemento. Una follia della produttività capitalista che ha portato a creare un mondo di dolore e sofferenza, perfettamente celato dietro packaging puliti e pubblicità ingannevoli. Il nostro scopo è far sì che anche qualcuno proveniente dal futuro li percepisca allo stesso modo.

Team Bio-violenza – Degli allevamenti intensivi pensiamo, grosso modo, che siano dei lager, nel senso di luoghi di concentrazione di grandi quantità di corpi. Luoghi in cui mucche, polli, maiali, conigli, pesci sono sottoposti a torture insopportabili, in cui cercano di resistere in mille modi  – fuggendo, ribellandosi, rifiutando il cibo, ammalandosi, mutilandosi – ma trovano un ambiente strutturato appositamente per rendere vani i loro tentativi. Va detto che, nell’affermare quanto sopra, non siamo certo molto originali: tutte le realtà antispeciste contestano gli allevamenti intensivi, e ottengono facilmente una certa visibilità mediatica. Anche l’opinione pubblica è, probabilmente, in maggioranza contraria agli allevamenti intensivi, almeno a livello di principio. Non solo vegetariani e vegani  contestano infatti tali modalità di produzione: moltissime persone che mangiano carne sono indignate per le condizioni di questi animali, pur non rifiutando in generale l’idea che sia lecito ucciderli o sfruttarli per produrre cibo ad uso umano, o pur non avendo affrontato la questione.

maiali allevamento intensivo

Foto: Essere Animali

Cosa pensi degli allevamenti estensivi/bio?

Matteo Cupi – Credo fermamente che gli animali dovrebbero stare fuori dai piatti delle persone. In quanto essere senzienti, meritano di vivere una vita liberi da qualsiasi costrizione o sopruso. Nessuno di loro, che sia allevato in forma intensiva o estensiva, merita di finire sui ganci di un macello. Animal Equality ha condotto varie inchieste anche all’interno di allevamenti considerati biologici e quello che abbiamo documentato si discosta fortemente dalle immagini promozionali di chi distribuisce prodotti di origine animale.

Claudio Pomo – Credo che per molti consumatori siano la ricerca del male minore. Noi sappiamo che possiamo benissimo fare a meno dei prodotti animali, ma per molte persone per quanto scoprire cosa accade nella produzione industriale e intensiva di carne sia uno shock, rimane ferma l’idea che questi cibi siano necessari. E allora si illudono che esista un modo di consumarli senza arrecare troppa sofferenza. Possiamo dire che questo sia un primo passo, per quanto nella nostra ottica molto piccolo, segno di una sensibilità che non dovremmo criticare ma coltivare e far crescere. Contrariamente a molti vegani, infatti, io non valuto negativamente queste persone e non voglio definirle ipocrite. Per quanto il prodotto “carne felice” sia venduto in modo ipocrita, non lo è per forza chi lo consuma, vittima di un messaggio di greenwashing tanto quanto tutti noi siamo stati per buona parte della vita vittime dei messaggi dell’industria della carne. Certamente gli allevamenti estensivi non sono una soluzione a niente ovviamente e non deve essere il movimento per i Diritti Animali a promuoverli. Nondimeno una loro diffusione sarà un modo per ridurre i numeri di animali allevati e quindi anche i consumi di carne.

Team Bio-violenza – Esistono una serie di sistemi di produzione di carne e derivati che potremmo chiamare, per comodità, “allevamenti non intensivi”. Ciò che li differenzia dalla produzione intensiva è talvolta un più alto standard di salubrità o qualità della carne (meno antibiotici, meno ormoni, miglior foraggio), talvolta una maggior attenzione al benessere animale, talvolta una particolare attenzione all’impatto ambientale, più spesso la compresenza di questi elementi. In generale, però, tali produzioni sono percepite come pratiche che implicano una certa considerazione del benessere animale.

Secondo noi, la diffusione di queste tipologie di allevamenti costituisce una risposta dell’industria della carne all’indignazione pubblica, o anche solo alla possibilità che la gente sviluppi dei “problemi di coscienza”. Ma gli animali sono “trattati bene”, negli allevamenti non intensivi? È difficile generalizzare, data l’eterogeneità del fenomeno. Tuttavia, occorre ricordare un fatto banale: gli animali da reddito vengono, presto o tardi, mandati al macello. Possono vivere in gabbie più larghe, più a lungo, talvolta possono interagire con i loro simili, ma è al mattatoio che sono destinati. Senza contare che esiste un intero settore, quello degli animali marini, in cui di benessere praticamente non si parla, poiché l’opinione pubblica non è sensibile alla sofferenza dei pesci. In questo settore si parla perlopiù di attenzione allo spreco (cioè a non esaurire le “risorse”), all’inquinamento o alla biodiversità. ù

Questa precisazione rivela un punto interessante: le misure per il benessere animale non sono mai davvero un obiettivo in sé e per sé, ma costituiscono una sorta di effetto collaterale dei veri obiettivi delle proposte di migliorie legislative, che sono l’ottimizzazione della produzione, la tutela di specifici prodotti “di qualità”, la salute del consumatore umano, e così via. In sintesi, dunque, gli allevamenti “estensivi” sono soltanto l’altra faccia di quelli intensivi.

allevamento biologico

Si può parlare di “carne etica”?

Matteo Cupi – No, non esiste una carne etica, appunto per i punti affrontati poco fa. L’unica carne ‘etica’ che posso menzionare e che spero venga messa presto sul mercato è la ‘clean meat’, una carne che viene prodotta attraverso cellule staminali e promette di avere pochissimo impatto sull’ambiente in cui viviamo, rendendo obsoleto l’attuale sistema di produzione animale.

Claudio Pomo – Ovviamente non si può utilizzare la parola etica accostata all’uccisione di un essere vivente, è un ossimoro. Esiste una carne con minore sofferenza per gli animali, questo sarebbe ipocrita negarlo, ma le parole etica o felice accostate alla carne a mio avviso non si possono affatto utilizzare se si vuole parlare in modo sensato e oggettivo. Se lo si fa è solo a puri fini di marketing, cioè per non perdere una fetta di consumatori che iniziano ad avere dei dubbi.

Team Bio-violenza – La carne etica, come la “carne felice”, è per noi un ossimoro, ovviamente. Se escludiamo alcuni casi marginali come la caccia e la pesca di sussistenza – del tutto inesistenti nei paesi industrializzati – è evidente che rinchiudere e uccidere un animale per mangiarlo o mangiare i prodotti delle sue attività riproduttive è ingiustificabile, per il semplice fatto che oggi se ne può fare a meno. Ancora più subdolo è poi il concetto di “carne felice”. Spesso allevatori e macellai propongono immagini di animali felici di finire in padella o di darci il latte. Questa iconografia, che spesso sconfina in un’oscena ridicolizzazione della vittima, è la manifestazione più plateale (e, di frequente, sessista e misogina) di una narrazione strisciante, secondo cui le mucche sono contente di farsi mungere, gli animali in generale ci sono grati perché diamo loro cibo e riparo, e in fondo lo sfruttamento è una brutta parola che getta un’ombra su quello che sarebbe un patto fra pari (io ti do da mangiare e una serie di cure, tu mi dai una serie di prodotti e, alla fine, il tuo stesso corpo). L’animale, che è comunque già considerato “carne-che-cammina”, è felice. Ma, anche se l’animale della fattoria è dipinto come un attore che fornisce liberamente il proprio consenso e si dà gioiosamente al suo padrone, nessuna persona provvista di un minimo di senso critico potrebbe pensare che un essere senziente, umano o non umano, possa essere felice di venire macellato.

maiali allevamenti intensivi
Raggiungere la liberazione animale a piccoli passi: auspicabile o assolutamente inutile?

Matteo Cupi – Credo che il movimento di liberazione animale dopo tanti anni di lavoro abbia ottenuto molte vittorie, ma allo stesso tempo commesso tanti errori. Se c’è una cosa che ho imparato dall’esperienza è che le piccole cose nella vita contano molto: se non si è in grado fare bene le piccole cose, non ci sarà mai l’occasione di fare bene quelle grandi. Certo, i piccoli passi potrebbero sembrare deleteri se guardati da un punto di vista ‘purista’; se invece ci sforzassimo di assumere la prospettiva di un animale senza via di scampo, capiremmo che c’è un’enorme differenza per lui tra lo stare tutta la vita in gabbia o meno. Ce la stiamo mettendo tutta per ridurre la sofferenza degli animali senza perdere di vista altri aspetti di quello che stiamo facendo, come ad esempio la sensibilizzazione sui diritti animali, il coinvolgimento delle istituzioni e la costante promozione di una dieta a base vegetale. È raccomandabile comunque evitare di concentrarsi su teorie poco pratiche e portare il paraocchi quando si parla della questione animale: è quasi impossibile applicare la teoria del ‘o tutto o niente’ per ottenere dei risultati davvero significativi. La storia lo insegna e non vedo perché dovrebbe essere diverso quando si parla di liberazione animale.

Claudio Pomo – Per me nessuna delle due: semplicemente lo vedo come necessario. Auspicherei ovviamente di arrivarci tutto in una volta, e il prima possibile, ma se vogliamo essere onesti intellettualmente questo non può avvenire, se non con un ribaltamento totale della società. Quindi nel mondo in cui ci troviamo una tattica fatta di più passi, diventa probabilmente l’unica strada percorribile, a meno di non volere rimanere fermi sul posto a puntare il dito verso un luogo idilliaco ma irraggiungibile. Ogni passo invece ci avvicina a quel punto di arrivo e può significare l’eliminazione di una forma di sfruttamento e riduzione del numero di animali uccisi o prigionieri. Il dibattito in merito è acceso e divide il movimento, spesso anche troppo. Per qualcuno un passo da fare è l’allargamento delle gabbie, per altri lo è l’abolizione di una certa pratica, la chiusura di un’azienda o il voto di una nuova legge. Io credo che un movimento più è variegato e più strategie persegue e più è forte, se le tattiche e i fini (e gli attivisti) non vanno a contrastare l’uno con l’altro. L’importante è andare tutti nella stessa direzione, cioè sapere che il fine è la loro liberazione.

Team Bio-violenza – Per “piccoli passi” si possono intendere tante cose. Alcuni progressi possono costituire effettivamente un sollievo per gli sfruttati, e possono dare loro la possibilità di una vita un po’ meno indegna; altri sono francamente una presa in giro. In ogni caso, però, non crediamo che sia il compito di un movimento per la liberazione animale quello di proporre e promuovere tali piccoli passi, come le varie forme di “allargamento delle gabbie” o il rispetto delle caratteristiche etologiche dei prigionieri dell’industria zootecnica. La nostra richiesta non può che essere “gabbie vuote”, e non “gabbie più larghe”, “libertà” e non “arricchimento ambientale della cella”. Alcuni attivisti ritengono che la diffusione di allevamenti in cui gli animali abbiano qualche spazio di vita in più possa essere “educativo” per i consumatori, che imparerebbero così a vedere negli animali degli individui con propri sentimenti e desideri. Dissentiamo da questa visione: al contrario, temiamo che l’effetto sia proprio quello di una normalizzazione del rapporto di sopraffazione. Basti pensare alla diffusione delle fattorie didattiche, in cui i bambini imparano fin dalla più tenera età che gli animali sono al nostro servizio, che possono essere violati nella loro intimità, guardati senza il loro consenso: il tutto al riparo dalla realtà materiale sottostante, che impressionerebbe le persone troppo giovani, e cioè la macellazione.

mucche allevamento

La scelta vegana o vegetariana è un punto di partenza per porre fine allo sfruttamento animale?

Matteo Cupi – È oramai dimostrato che possiamo godere delle gioie della tavola con una dieta a base vegetale, e la scelta vegana o vegetariana è senza ombra di dubbio un ottimo punto di partenza per la fine dello sfruttamento degli animali. Le stime parlano chiaro, la sensibilità verso la questione animale sta crescendo di anno in anno e sempre più velocemente e, di conseguenza, molte persone prendono la decisione di ridurre il proprio consumo di carne o adottare un’alimentazione priva di carne e prodotti di origine animale. Il rapporto Eurispes 2016 dipinge una popolazione italiana sempre più propensa al vegetarismo. Le persone che hanno deciso di eliminare carne e pesce dalla propria alimentazione sono arrivate infatti all’8%: stiamo parlando di quasi 5 milioni di persone. La nostra organizzazione lavora senza sosta per contribuire alla crescita di questo fenomeno.

Claudio Pomo – Non lo vedo come un punto di partenza, piuttosto come uno dei vari mezzi per arrivarci, quello che più facilmente ognuno di noi può mettere in pratica nel quotidiano e che allinea i comportamenti con le proprie idee. Come scelta personale è un modo per iniziare a realizzare oggi il mondo che desideriamo vedere domani; come scelta politica è un modo per esprimere la propria contrarietà allo sfruttamento e al dominio sulla vita di altri esseri viventi. Ma solo come scelta collettiva ha la forza di spostare l’asse dei consumi e impattare sul numero di animali macellati.

Team Bio-violenza – All’interno del nostro collettivo esistono ovviamente opinioni differenti sul valore del vegetarismo e del veganismo, e su quale utilità possa avere per la liberazione animale. In ogni caso, siamo d’accordo che non debba essere inteso come uno stile di vita individuale, ma come la conseguenza di una precisa posizione politica, ovvero quella di chi vorrebbe abolire, superare o distruggere gli allevamenti. In questo senso, ci concentriamo su questa lotta, quella per contrastare la schiavitù animale, intensiva o “dolce” che sia, e non sulla coerenza individuale di chi la sostiene. Non ci rivolgiamo dunque, come fa una parte del movimento animalista vegan, alle persone in quanto consumatori, ma in quanto attori sociali, membri di una società antropocentrica. Pensiamo che le persone siano in grado di esprimere dissenso rispetto allo sfruttamento animale in modo ben più radicale che con la semplice adozione di un “consumo critico” in salsa animalista.

Allevamenti intensivi in Italia, Essere Animali: “Ecco che cosa vediamo ogni giorno”

 

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