Gli animali sono davvero altruisti?

Dalla solidarietà tra i membri di un branco di elefanti agli episodi di collaborazione tra specie diverse: si tratta di proiezioni del nostro comportamento sugli altri animali o è vero e proprio “altruismo”?

Alcuni esemplari di vampiro, un animale simile al pipistrello, stringono rapporti di amicizia con alcuni membri del loro stesso gruppo: dormono vicini quando tornano alla tana, si scambiano favori e si aiutano in caso di necessità, per esempio durante la caccia. Diverse specie di uccelli, come le rondini o i merli, e alcuni mammiferi (roditori e primati in particolare) lanciano dei segnali di allarme in caso di avvistamento di predatori, anche se dare l’allarme per mettere in salvo i compagni significa attirare l’attenzione del predatore su di sé e rischiare la propria vita. Atteggiamenti altruistici sono osservati dagli etologi anche nei primati, tra tutti oranghi e bonobo, e possono coinvolgere animali di branchi o addirittura specie diversi, come cuccioli abbandonati o uccelli feriti. Infine, alcuni insetti come le api operaie arrivano addirittura a sacrificarsi pur di proteggere la colonia dai ladri di cibo.

Tra i comportamenti sociali studiati dagli etologi, l’altruismo è probabilmente il più affascinante, perché dal punto di vista evoluzionistico è un paradosso: l’individuo altruista aiuta il compagno senza necessariamente ricevere qualcosa in cambio, una strategia decisamente poco vantaggiosa per la propria sopravvivenza. Al contrario, un’azione egoista risulta più sensata per l’individuo: emblematico è l’esempio delle femmine di quokka e di altri marsupiali, che di fronte a un predatore espellono il proprio piccolo dal marsupio e si danno alla fuga. Questa tattica ai nostri occhi è indubbiamente discutibile, ma per mamma quokka fa la differenza tra la vita, e quindi nuove possibilità di riprodursi, e la morte.

C’è differenza tra altruismo animale e altruismo umano?

È all’evoluzionismo che si può guardare per trovare una risposta a questo quesito. Infatti Charles Darwin, padre della teoria dell’evoluzione, riconosceva una tendenza umana alla moralità, ma sosteneva che questa è presente anche in molte altre specie con istinti sociali simili ai nostri, come per esempio i cani, i pellicani e gli altri primati. In effetti, molte moderne teorie evoluzionistiche hanno individuato i tratti salienti dell’altruismo (il possesso di empatia, il rifiuto della sofferenza dei propri compagni e gli atteggiamenti sociali), ed evidenziano come potrebbe trattarsi di una caratteristica, presente in alcuni esemplari, che si è rivelata efficace contro la predazione, ed è stata “privilegiata” dalla selezione naturale sopravvivendo tuttora nei comportamenti degli animali sociali.

Altri studiosi, invece, ritengono l’altruismo “genuino” una prerogativa umana: come in altri contesti, a causa di influenze culturali e religiose si è cementata l’idea che ci sia una “discontinuità” tra esseri umani e altri animali, e che la causa di questa rottura sia proprio un’evoluzione culturale che procederebbe parallela a quella biologica, secondo meccanismi simili ma molto più veloci.

Le spiegazioni dell’altruismo negli animali

L’altruismo negli animali, quindi, rappresenta un mistero dell’evoluzione, ma esistono comunque diversi approcci alla questione.

La sociobiologia, ovvero la disciplina che studia le basi biologiche e genetiche del comportamento degli animali sociali, trova nella “selezione di gruppo” una convincente spiegazione dell’altruismo. Secondo questa teoria, un gruppo di animali della stessa popolazione ha meno probabilità di estinguersi se gli individui sono altruisti rispetto a un gruppo analogo, ma formato da individui egoisti, il che spiega l’istinto a sacrificarsi per gli altri, ed è specialmente valida nel caso di individui imparentati tra loro (“selezione di parentela”). 

Una delle critiche principali mosse a questa posizione è il fatto che non sempre sono chiari i confini tra la prospettiva biologica e quella delle scienze umane. Inoltre, sebbene sia utile a tracciare una linea di incontro tra mondo umano e mondo non-umano, a causa della delicata integrazione tra le discipline non sempre la sociobiologia riesce a ricondurre i comportamenti umani a meccanismi biologici (come invece si propone di fare): da una parte riesce a spiegare atteggiamenti come xenofobia e razzismo, dall’altra fenomeni quali la cura degli anziani, i riti funebri e il calo del tasso di riproduzione nei Paesi industrializzati non trovano una spiegazione sociobiologica.

Un’altra teoria sull’altruismo, che prende le mosse dallo stesso desiderio di spiegare contemporaneamente quello umano e quello animale, è l’ipotesi del gene “egoista”, elaborata da Richard Dawkins. Il biologo inglese, nato nel 1941, è noto per le sue critiche al creazionismo e per la sua visione “genocentrica”, inserita nel contesto neodarwinista di cui è tra i maggiori esponenti. Dawkins respinge l’idea che un individuo possa agire “per il bene” del gruppo o della specie, bensì sostiene che l’elemento fondamentale della selezione è il gene (l’unità strutturale formata dal DNA): gli individui (e a maggior ragione i gruppi) sono troppo instabili ed effimeri nel tempo per essere considerati dalla selezione, e non sono quindi che “macchine di sopravvivenza” per il gene, utili a trasportarlo, proteggerlo e trasmetterlo. In quest’ottica, le strategie impiegate dalla maggioranza degli individui risultano essere più vantaggiose per i geni, soprattutto se questi individui sono imparentati tra di loro.

Per comprendere meglio questa posizione basta pensare ai virus, che “usano” gli individui con il solo scopo di replicarsi quanto più possibile e conservarsi nel tempo e nello spazio. A supporto della tesi di Dawkins arrivano gli ultimi sviluppi della genetica, e in particolare del ramo della cosiddetta “evo-devo” (evolution of development), che ha permesso di dimostrare che uno stesso gene può codificare strutture completamente diverse in animali di specie anche molto distanti tra loro. Per esempio, il gene Pax-6 è coinvolto nello sviluppo di strutture nell’occhio e nel sistema nervoso sia nei vertebrati sia nei moscerini della frutta.

Siamo solo codice?

Un’attenta analisi di queste due posizioni, quella sociobiologica e quella “genocentrica”, mette in luce che che entrambe obbediscono a una premessa di fondo: il determinismo genetico, ovvero l’idea che siano esclusivamente i geni a determinare azioni e comportamenti degli individui, altruismo compreso. 

Per la sociobiologia si può “scampare” alla determinatezza solo a causa di variazioni non dovute alla selezione ma a eventi esterni, non ancora spiegabili scientificamente, ma la cui portata dovrà essere sottoposta alla guida della scienza. Dawkins invece ritiene che si possa comunque credere nel libero arbitrio, sostenendo che quella dei geni sia un’influenza al comportamento che può essere modificata.

Ma queste eccezioni rafforzano l’idea che Homo Sapiens stesso sia un’eccezione: può “scegliere” di essere altruista, mentre il suricate che avvista un predatore e lancia un allarme ai compagni rendendosi vulnerabile non può fare altrimenti. Eppure, secondo le teorie più recenti, come quelle portate avanti dai filosofi della biologia Elliott Sober e Armin Schulz, l’evoluzione potrebbe avvantaggiare gli esseri umani che sono capaci di “vero” altruismo: se c’è un vantaggio evolutivo nella cura parentale, i genitori che tengono “davvero” ai propri figli si adopereranno con più impegno per garantirne un maggior benessere rispetto a chi è mosso da motivi (anche) egoistici. E, poiché al momento non sembrano esserci argomentazioni contrarie, si può ipotizzare che lo stesso valga anche per gli altri animali, rendendoci tutti dei “veri altruisti”.

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