Gli animali nell’antico Egitto

A partire dallo studio delle loro mummie, scopriamo insieme che ruolo avevano e come erano considerati gli animali in una delle civiltà più antiche della storia

Erano incarnazione degli dèi, compagni di vita ma anche centro di traffici e frodi, nonché elemento non minoritario sulle tavole. Gli archeologi e gli egittologi studiano le loro mummie che sono giunte sino a noi a migliaia. Ecco cosa sappiamo degli animali e del rapporto che con loro ebbe una popolazione che dominò 4mila anni di storia.

C’erano anche i cani poliziotto ad aggirarsi fra le vie di Tebe, Menfi e Karnak, antiche città lungo le sponde del Nilo. Ce lo dicono le pitture che ricoprono le pareti stuccate dei maestosi templi dedicati alle divinità, ma anche i disegni sugli ostrakon, frammenti di terracotta che potremmo definire come i “fogli di brutta” del periodo. Gli animali, tutti gli animali, facevano parte del grande disegno divino, erano compagni, strumenti, divinità, armi letali. “Nella cultura egizia – racconta Christian Greco, egittologo e direttore del Museo Egizio di Torino dal 2014 – il mondo è abitato dalle divinità, le divinità sono immantinenti nella natura”. La natura non è qualcosa di estraneo rispetto alla quotidianità: il Nilo è sacro, così come lo sono il cielo, la terra e gli animali che fanno parte di un disegno che, però, ha pur sempre al centro l’uomo.

Mummie animali e frodi nei templi

La maggior parte dei resti animali che sono giunti fino a noi dalla civiltà egizia sono rappresentati da mummie animali o resti sepolti in vere e proprie necropoli a loro dedicate. Nel 2018 a Saqqara, uno dei siti di scavo ancora più ricchi di misteri da svelare, sono emersi migliaia di reperti animali fra mummie di gatto, scarabei, coccodrilli e tori: una necropoli che racconta uno dei ruoli che gli animali ebbero nel pantheon degli dèi egizi. Nei templi dedicati alle divinità, infatti, si recavano molti pellegrini che chiedevano agli dèi protezione e soluzione ai propri guai; come testimonianza di fede, come ex-voto, era uso utilizzare una mummia dell’animale sacro a quella divinità. Ecco quindi moltissime mummie di gatto, animale legato a Bastet, dea del focolare e della casa, oppure mummie di ibis, uccello sacro al dio della scrittura e della conoscenza, Toth; ma anche scarabei, pesci, gazzelle, coccodrilli, rane e cani, potevano diventare protagonisti di un viaggio oltre la morte da acquistare nei templi. ù

“Per il popolo egizio – spiega Federica Facchetti, archeologa e curatrice del museo egizio di Torino dal 2014 – la parte valeva come il tutto, quindi acquistare una mummia che contenesse anche solo una piuma, o un osso dell’animale votivo, andava bene. Questo non toglie – continua – che durante le analisi computerizzate delle mummie animali ci siamo imbattuti anche in veri falsi, ossia involucri in lino, colorati e ben intrecciati che, pur avendone le fattezze, non contenevano nessun elemento animale. Possiamo solo ipotizzare che si trattasse, da parte dei sacerdoti custodi dei templi, di un modo per arrotondare e far quadrare i conti”. La mummificazione degli animali è un’usanza di cui si ha testimonianza già in epoca predinastica, più di 4000 anni fa, ma il successo di questa pratica si ebbe soprattutto in Epoca Tarda, fra il VII e il IV secolo a.C. Nelle aree adiacenti ai templi gli animali venivano addirittura allevati con lo scopo di diventare mummie votive: insomma, non morivano certo di morte naturale. “Poteva accadere, e lo abbiamo verificato sempre grazie alle analisi TAC delle mummie, che gli animali venissero uccisi appositamente per poter diventare ex-voto. Nel Nuovo Regno (ossia fra il 1500-1400 a.C) nascono anche delle necropoli immense dedicate a questi animali”.

Tempio di Ramesse II ad Abido, dettaglio del bassorilievo presente nel lato destro del muro nord di entrata. Qui viene rappresentato un bue condotto come offerta.

Le mummie animali non avevano solo lo scopo di celebrare o ingraziarsi una divinità, ma anche di fungere da cibo dopo la morte per il defunto. Nella tomba del faraone bambino Tutankhamon, fra le migliaia di reperti trovati intatti (quella dell’erede del faraone eretico Akhenaton, infatti, è una delle sole due tombe trovate non violate dai predoni, l’altra, quella di Kha e Merit si trova al museo di Torino) c’erano delle scatole in legno che contenevano cibo di ogni tipo per il faraone, compresi volatili già spennati e pronti per essere cucinati. Le mummie animali rappresentano un patrimonio immenso per gli studi sull’antico Egitto, ma nei primi del Novecento questi reperti così numerosi fecero anche fini meno gloriose: “È successo che venissero usate come carburante da bruciare – spiega sempre Facchetti – oppure come rimedio miracoloso per la salute”. Con l’editto di Teodosio e, di fatto, con la scomparsa di qualsiasi altro culto che non fosse quello cristiano, anche l’usanza della mummificazione animale scomparve dalla storia.

Animali, ma quali?

Il pantheon delle divinità egizie, quasi sempre raffigurate attraverso la loro controparte animale, in tutto o solo come volto, era molto ampio e altrettanti erano gli animali che venivano adorati o ritenuti simbolo sacro. Troviamo il serpente, simbolo dalla duplice valenza: positiva, legata alla fertilità ma anche negativa perché associata ad Apofi, divinità delle tenebre che cerca di non far sorgere il sole; lo scarabeo, che con il suo atto di muovere palline di sterco ricorda il moto solare ed è associato al dio Khepri; oppure la mosca, animale che non compare come divinità, ma come decorazione militare donata in effige dorata dai faraoni a chi si distingueva per coraggio e valore. E poi ecco il falco, simbolo del dio Horus, e i coccodrilli manifestazione del dio Sobek, temuta divinità del Nilo che garantiva o negava la fertilità generata dal limo, sottile strato di fango che si depositava sulle sponde del fiume dopo le piene periodiche.
Anche il toro aveva un ruolo importante: simbolo legato al dio Api, sono molte le mummie di toro trovate nei templi a esso dedicati come il serapeo di Menfi; qui alcuni tori, ritenuti incarnazione delle divinità, non solo venivano trattati con tutti gli onori, nutriti, lavati e adorati ma, una volta passati a miglior vita naturalmente, erano tributati di un vero funerale e tumulati in sarcofagi degni dei grandi dignitari di corte. Nel lungo periodo di lutto che seguiva la loro morte non si mangiava carne per rispetto alla divinità. Per chi uccideva l’animale sacro, invece, era prevista la pena di morte, uno dei rarissimi casi nella società egiziana, insieme alla predazione delle tombe reali, per la qaule veniva comminata una punizione di tale entità. Un periodo di lutto veniva osservato anche dopo la morte di gatti e cani domestici. Secondo le descrizioni che ci arrivano da Erodoto, in viaggio in Egitto nel 450 a.C, gli egizi alla morte del gatto di casa si radevano le sopracciglia in segno di rispetto, mentre veniva fatta una rasatura totale del corpo nel caso della scomparsa di un cane.

Mummia di un pesce – Museo Egizio di Torino

Gli animali domestici

Gli animali erano anche compagni di vita nelle case dei cittadini, nei giardini dei contadini o nelle ville dei nobili, e persino nelle residenze dei faraoni. Gatti e cani erano già presenti e avevano anche ruoli di utilità: i primi, soprattutto nelle campagne, aiutavano a tenere sotto controllo il numero dei topi che potevano creare danni alle scorte alimentari o ai raccolti; i cani erano guardiani ma anche compagni nelle battute di caccia, così come validi deterrenti per i malfattori: come abbiamo visto, anche il corpo di guardia della città li usava per raggiungere più in fretta qualche ladruncolo un po’ troppo lesto di gambe. Da compagnia erano considerate anche le gazzelle e le scimmie, con particolare riferimento ai babbuini, anche loro – insieme agli ibis – simbolo del dio Toth. Per quanto riguarda i faraoni, incarnazione terrena del divino e guida unica del popolo, gli animali erano simboli di potere e manifestazione dello status sociale, oppure regali ricevuti da popolazioni soggiogate. Ecco quindi dipinti che mostrano nubiani in procinto di regalare giraffe, ghepardi e leoni al sovrano, oppure orsi che arrivavano dalla Grecia.
A riprova dell’affetto e del ruolo che questi animali potevano rivestire nella vita delle popolazioni egizie, ecco che nella tomba del figlio del faraone Amenofi III, il principe Thutmosi, è stata rinvenuto il sarcofago della sua adorata gatta Tamit.
E i cavalli? In realtà questi animali vennero importati in Egitto solo dopo lo scontro avvenuto con gli Hyksos (termine con il quale si designarono le popolazioni asiatiche che sconfissero gli egizi governando il delta del Nilo); i cavalli, infatti, non erano conosciuti lungo il fiume e furono lo strumento più micidiale che le popolazioni asiatiche utilizzarono in battaglia, sia legati al carro da guerra (anch’esso sconosciuto in Egitto) sia come mezzo di locomozione per la cavalleria armata. I cavalli, quindi, vennero utilizzati dopo il 1700 a.C, ma solo per la guerra, la caccia o come simbolo di status sociale elevato.

Il cibo e gli animali

Anche se si possono leggere alcune interpretazioni storiche che segnalano l’antico Egitto come luogo di popolazioni prevalentemente vegetariane, la verità è che l’allevamento e l’uso degli animali come cibo era assolutamente comune. Ci sono numerose raffigurazioni di allevamenti di volatili (ma non della gallina, che era sconosciuta in quell’area del mondo), di buoi e addirittura di iene che vengono alimentate, anche forzatamente, per garantirne un rapido aumento di peso. Anche la carne bovina e quella suina veniva consumata anche se i maiali sono raffigurati e citati pochissimo. “Pare fossero considerati impuri e sporchi – spiega l’archeologa Facchetti – ma questo non toglie che venissero comunque macellati e consumati“.
Anche se la quantità e le modalità del consumo di carne non era certamente nemmeno paragonabile a quella odierna, sarebbe un errore pensare che, dato il senso della sacralità legata agli animali, in Egitto gli animali fossero al sicuro. Solo alcuni animali, esemplari specifici, erano considerati sacri (perché portatori di caratteristiche fisiche particolari, come macchie colorate sul pelo o corna di una certa forma), mentre per gli altri il destino era spesso segnato.

Bassorilievo del tempio di Sobek e Haroeris a Kom Ombo. La scena mostra Tolomeo XII che riceve l’Ankh (simbolo della vita) e la corona dagli dei Thoth, Bastet, Iside il tutto al cospetto di Horus e Ra.

Va certamente ricordato, però, che la base dell’alimentazione egizia (una civiltà che fu prevalentemente agricola grazie alle pianure fertili del Nilo) era costituita prevalentemente da pane e birra preparati con farro e orzo. Il pane era realizzato con varie forme, fra le quali anche quella a cono. La birra non era esattamente come la immaginiamo noi, ma piuttosto una sorta di zuppa molto densa, nutriente e meno alcolica della nostra. Non esisteva lo zucchero e per dolcificare le pietanze si usavano miele e datteri. Ovviamente, niente pomodori, patate e mais, alimenti che compariranno nella storia mondiale solo dopo lo sbarco di Colombo nelle Americhe. La popolazione dei centri urbani consumava, oltre a pane e birra, anche cipolle, aglio e molti legumi (che, grazie al loro potere saziante e corroborante, facevano parte delle scorte anche dei militari durante le guerre); in campagna, invece, ecco anche frutta e verdura, insieme ai risultati di attività limitate di caccia (in particolare ai volatili) e pesca.

La carne bovina, invece, non era appannaggio di tutti. Data l’impossibilità di conservare la carne per lungo tempo se non essiccandola, solo i più ricchi potevano mangiare animali, che dovevano essere macellati e consumati molto velocemente: era necessario avere servitori che se ne occupassero e che poi cucinassero velocemente il “risultato”. Anche il vino era presente sulle tavole, così come il seremet, una sorta di birra di lusso ottenuta dalla fermentazione dell’orzo insieme ai datteri.
La cosa curiosa che fanno notare gli studiosi è l’assenza di testimonianze scritte relative alle preparazioni: nonostante le migliaia di papiri e di iscrizioni, non ci è pervenuta la purché minima ricetta di cucina.

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