Sussurrare ai rinoceronti: i racconti di una veterinaria di fauna selvatica

Di cosa si occupa una veterinaria di fauna selvatica? E perché dovremmo interessarci molto di più della biodiversità che stiamo perdendo (anche sotto casa)? Ne parliamo con la ricercatrice italiana che salva dall’estinzione i rinoceronti neri orientali

Francesca Vitali è una veterinaria di fauna selvatica. Da diversi anni lavora in Kenya, dopo un dottorato di ricerca conseguito a Milano. Fa la ricercatrice per conto dello Smithsonian Institution americano, a capo di un progetto per la cura e la conservazione dei rinoceronti neri orientali, sottospecie di rinoceronte nero della quale rimangono, in tutto il pianeta, poco più di 1000 esemplari, dei quali 897 proprio in Kenya. Da lei, che sul tema della biodiversità ha un osservatorio privilegiato, ci siamo fatti raccontare cosa stiamo rischiando (dall’altra parte del mondo come sulle montagne di casa nostra). E cosa vuol dire lavorare ogni giorno per non perdere una corsa contro il tempo che ci vede già in grande affanno.

Vitali, di lavoro fa la veterinaria di fauna selvatica e lavora con specie in via di estinzione: è una figura per certi versi pionieristica. Ce la racconta?

Quella del veterinario di fauna selvatica è una professione emergente: fino a pochi decenni fa questa figura era rara e condivideva un ruolo a metà con quello del biologo, occupandosi delle popolazioni di animali selvatici da un punto di vista manageriale. Oggi, invece, a causa dell’urgenza nello scongiurare il rischio di estinzione per molte specie, c’è un’attenzione senza precedenti anche alla cura del singolo individuo, che sia ferito per bracconaggio o per cause naturali. Io, nello specifico, mi occupo di medicina della conservazione, branca che mette insieme la parte clinica, quindi il trattamento veterinario e la prevenzione, con azioni indirizzate a promuovere la conservazione delle specie. Per esempio le traslocazioni – cioé il trasferimento di individui da un sito a un altro per aumentare le possibilità di sopravvivenza di una specie – l’applicazione di dispositivi per monitorare i movimenti come i gps, e il monitoraggio di malattie. La ricerca scientifica in questo ambito è una priorità perché a oggi abbiamo pochissime informazioni sulla fisiologia della maggior parte delle specie selvatiche, sul funzionamento del loro organismo, sulla reazione ai farmaci che gli somministriamo, sulle conseguenze dello stress quando, ad esempio, facciamo le traslocazioni. È una figura pionieristica anche perché sempre più specie sono non solamente a rischio, ma a rischio estinzione grave. Una situazione che richiede un management delle popolazioni di animali selvatici sempre più “spinto” in termini di procedure necessarie per assicurarne la sopravvivenza. Il nostro lavoro consiste nel fare ricerca per mettere a punto linee guida di intervento che siano sempre più solide dal punto di vista scientifico.

Sul fronte climatico, gli esperti hanno indicato un obiettivo: non dobbiamo superare l’innalzamento della temperatura media globale di un grado e mezzo. Esiste un target simile per la biodiversità o siamo già in ritardo?

Siamo più che in ritardo. Se prendiamo come riferimento la classificazione di Rockström, scienziato svedese che ha teorizzato i nove limiti della Terra, per la perdita di biodiversità la soglia è già stata ampiamente superata configurandosi, tra i nove, come uno dei fattori più a rischio in assoluto. I numeri sono più che preoccupanti: si parla del 25% dei mammiferi in via di estinzione, del 40% per i vertebrati. In termini scientifici è quello che chiamiamo “zero loss”: non possiamo permetterci di perdere più nemmeno un esemplare. Ma, a differenza di quanto sta accadendo con la questione climatica, non se ne parla abbastanza.

Ha mai avuto, lavorando sul campo, la percezione di essere arrivata “tardi”?

Mi è successo qualche anno fa, quando ho incontrato per la prima volta i rinoceronti bianchi del Nord durante una procedura di prelievo ovocitario. È stato molto triste realizzare che eravamo rimasti con due esemplari – due femmine, mamma e figlia – e che l’unica possibilità per salvarli erano tecniche futuristiche di riproduzione in laboratorio. Per chi fa il mio lavoro, cose come quelle sono un cartello di avvertimento. Oggi io lavoro con i rinoceronti neri orientali: in tutto, circa 1000 esemplari. E provo questo senso di urgenza, quasi di “panico”: bisogna intervenire ora perché sono davvero a rischio. Come i rinoceronti neri orientali ci sono tantissime altre specie nella stessa situazione. Anche perché i fattori che possono accelerare la perdita di specie come queste sono tanti: basta un’epidemia. E poi ci sono il bracconaggio, la perdita di habitat, le politiche ambientali dei singoli Stati e quelle internazionali, e la mancanza di consapevolezza generale.

Francesca Vitali con un cucciolo di leone sequestrato e salvato subito prima di essere venduto come animale domestico

Spesso quando si parla di biodiversità pensiamo subito a scenari “esotici” come quelli nei quali lavora lei. Che ne è, invece, della biodiversità di casa nostra?

È vero, si parla tanto di Africa ma pochi sanno che, per esempio, in Europa abbiamo fatto un disastro negli corso degli ultimi secoli. Ora ci sembra strano che orsi e lupi siano presenti sulle nostre montagne, e fanno paura ai più, ma non pensiamo che prima c’erano e siamo stati noi a portarli sulla soglia dell’estinzione. In Europa abbiamo perso il contatto con la biodiversità: non passa il messaggio che tutelarla è importante non solamente perché è eticamente sbagliato portare all’estinzione altre specie animali, ma anche per non perdere equilibri fondamentali a livello di ecosistemi funzionali, che si sono evoluti in milioni di anni e all’interno dei quali ogni specie ha il proprio ruolo. Quando di parla di animali in via di estinzione pensiamo a quelli carismatici – rinoceronti, elefanti, leoni – e ci dimentichiamo di moltissime altre specie che per molti possono essere meno affascinanti, ma che hanno un ruolo ecologico importantissimo.

In termini di consapevolezza, nota delle differenze tra l’approccio occidentale e quello delle popolazioni del Kenya?

Noi in Italia abbiamo una biodiversità straordinaria, siamo molto fortunati, ma molti di noi non hanno familiarità o non sono particolarmente appassionati alla fauna. È come se ci fosse un distacco emotivo che, per esempio, in Kenya non vedo. Qui, soprattutto i giovani, hanno una grande passione per la natura, e riconoscono quello che ti può restituire in termini di esperienza e di arricchimento personale (oltre alla consapevolezza che si tratti di un asset economico molto importante).

E a cosa è dovuto questo nostro distacco, secondo lei?

In Italia, animali considerati “pericolosi” come lupi e orsi sono per lo più tornati recentemente. Ci eravamo disabituati a convivere con la fauna selvatica. Iniziative che si occupano di risolvere problemi di human-wildlife conflict, cioè di convivenza tra fauna selvatica e uomo, sono fondamentali per prevenire i conflitti, insieme all’educazione per rispettare e apprezzare la natura. Non è che in Kenya questi problemi non ci siano, ci sono sempre stati e ci si è abituati a convivere. Noi dobbiamo imparare a farlo di nuovo.

Non tutti possiamo fare i veterinari di fauna selvatica, ma ciascuno può fare la propria parte. Cosa dovremmo fare che non stiamo facendo o non stiamo facendo abbastanza?

Sicuramente interessarsi all’argomento. Si dice sempre che non ci si interessa alla cose finché non ci toccano da vicino: ecco, la perdita di biodiversità ci tocca da vicino, anche se è difficile da apprezzare nella pratica. Certamente, poi, ognuno può fare scelte individuali per vivere in modo più sostenibile. Ma una cosa che farebbe davvero la differenza è donare, anche piccole somme, a ong locali, fondazioni, istituzioni di ricerca. Il problema costante di chi fa il mio lavoro è la mancanza di fondi: non abbiamo soldi per poter programmare interventi a lungo termine, per assumere personale, per sviluppare progetti di conservazione, per tenere in piedi i santuari per gli animali. Infine, l’educazione ai più piccoli, che passa prima di tutto dalla più semplice delle cose: fare apprezzare loro la natura che hanno vicino.

Quella del veterinario di fauna selvatica è una professione pionieristica anche dal punto di vista di genere?

Io lavoro con un’istituzione americana e siamo molte donne nel team. Però, certamente non è facile: quello del veterinario di fauna selvatica, la conservazione in generale, sono ambiti professionali con un’impronta ancora prettamente maschile, anche se sempre più ragazze si stanno avvicinando all’argomento.

Se avessimo una sfera di cristallo (funzionante) e potessimo guardarci dentro, cosa vedremmo del futuro del pianeta da qui a metà secolo? Lei è fiduciosa?

Se pensassi agli scenari peggiori, non potrei alzarmi la mattina per fare il lavoro che faccio. La mia è una professione che si basa sulla possibilità di agire per cambiare le cose. La speranza è che ci sia sempre più consapevolezza sui rischi che stiamo correndo da parte dei cittadini perché chiedano alle istituzioni di intervenire concretamente.

Iscriviti alla newsletter e ricevi subito l'ebook gratis

Quattro ricette MAI pubblicate sul sito che potrai scaricare immediatamente. Puoi scegliere di ricevere una ricetta al giorno o una newsletter a settimana con il meglio di Vegolosi.it.  Iscriviti da qui.

Sai come si fa la salsa zola vegan? Iscriviti alla newsletter entro e non oltre l'11 maggio e ricevi subito la video ricetta

Print Friendly
0