Corea del Sud: salvi 200 cani “da carne”, l’allevatore cambia vita e coltiva erbe

HSI è un’associazione internazionale che finora ha permesso la chiusura di 13 grandi allevamenti di cani in Corea, aiutando economicamente gli allevatori a reinventarsi

Carne di cane Corea

Dare una nuova vita ai cani destinati al macello, aiutando economicamente gli allevatori. Questa è l’iniziativa portata avanti dall’associazione animalista Humane Society International (HSI), che finora è riuscita a far chiudere 13 allevamenti della Corea del Sud, in cui venivano allevati cani a scopo alimentare.

L’ultima in ordine di tempo è quella del signor Lee, l’allevatore 71enne della provincia di Gyeonggi che ha dedicato gli ultimi 14 anni della sua vita a questa attività. “Quando ho aperto questo allevamento, avevo sentito dire che l’industria della carne di cane era in piena espansione e pensavo che sarebbe stato un piano di pensionamento sicuro” ha dichiarato l’uomo.

I volontari dell’associazione, salutano in cani che verranno salvati dalle gabbie dell’allevamento

Adesso, invece, anche grazie alle campagne di sensibilizzazione e al lavoro di molti attivisti (tra i quali anche la pattinatrice olimpionica Meagan Duhamel) il consumo di carne di cane è drasticamente diminuito, tanto che Lee afferma che “in questi giorni così poche persone vogliono mangiare carne di cane che in realtà sto perdendo soldi. Volevo smettere di allevare cani per un po ‘, ma non sapevo come fare fino a quando un ex allevatore di cani mi ha parlato del programma di HSI per trasformare le fattorie in nuove imprese. Penso che ci sarà molto interesse da parte degli altri allevatori di cani che vogliono smettere, perché non si tratta solo di salvare i cani, ma anche di aiutare anche noi allevatori, e lo apprezzo molto“.

Cani salvati in Corea

I volontari abbracciano alcuni dei 200 cani tratti in salvo dall’allevamento del signor Lee

I cani salvati da questo allevamento sono oltre 200, trasferiti in Canada, Regno Unito, Stati Uniti e Paesi Bassi per essere adottati. L’ex allevamento è invece stato riconvertito in una fattoria in cui si coltivano erbe officinali, mentre tutte le gabbie verranno distrutte. “Dietro ogni salvataggio ci sono le storie di singoli cani sopravvissuti al commercio della carne di cane contro tutte le probabilità – dichiara Kitty Block, presidente della Humane Society International – Sono i coraggiosi ambasciatori della nostra campagna per porre fine per sempre a questa industria crudele e obsoleta, e aiutarli a riprendersi dal loro calvario è un privilegio.”

I trasportini che conterranno i 200 cani da mettere in salvo, vengono portati all’interno dell’allevamento del signor Lee.

Un’altra buona notizia, riporta l’associazione, è che il dibattito pubblico sul consumo di carne di cane in Corea si fa sempre più acceso. Di recente nel paese un giudice ha lanciato una sentenza storica stabilendo che è illegale uccidere cani per la loro carne, mentre una Corte Suprema ha concluso che uccidere i cani per elettrocuzione (il metodo più utilizzato nel settore) è troppo crudele e viola le leggi sul benessere degli animali.

Carne di cane: ci dobbiamo davvero indignare?

Il consumo di carne di cane è, per la maggior parte di noi, una vera e propria aberrazione: il pensiero di portare in tavola quelli che consideriamo come veri e propri membri della nostra famiglia ci fa inorridire, come la peggiore delle deviazioni; ma quello che accade in Oriente è frutto di una tradizione, la stessa che ci porta, in Occidente, a consumare quotidianamente  carne di mucca, maiale o pollo.

Maiali in gabbia

Non c’è distinzione, a livello morale, tra il consumo di carne di cane o gatto e quella di qualsiasi altro animale: quello che cambia è la nostra percezione, frutto della nostra cultura e del tempo in cui viviamo. Siamo tutti vittime di quello che la psicologa americana Melanie Joy, nel suo libro Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche definisce “carnismo“, un meccanismo psicologico che ci porta a considerare “commestibile” una specie animale a discapito di un’altra.

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