“I frutti dimenticati”, un saggio che ci guida alla scoperta di sapori antichi

I nostri nonni gustavano tante delizie dell’orto oggi dimenticate. Riscopriamone alcune, grazie a un libro edito da Gribaudo

C’era una volta un orto in cui crescevano rigogliosi piante e cespugli di tutti i tipi, carichi di frutti colorati e deliziosi. Un giorno, chissà poi perché, questi frutti tanto abbondanti e gustosi sono stati dimenticati. Quella che stiamo per raccontarvi non è una favola, ma la realtà: fino a qualche decennio fa, tutti gli orti in cui ci si imbatteva presentavano tantissime varietà di piante da frutto, in un tripudio di colori e sapori incredibile. Oggi, però, molte di queste piante sono scomparse, almeno dalla grande distribuzione. I loro frutti, fortunatamente, sono spesso in vendita nei mercatini a km zero, o si possono acquistare direttamente sul luogo di produzione o, in alcuni casi, crescono spontaneamente in orti e giardini.

Grazie al libro “I frutti dimenticati – Conoscere e cucinare prodotti antichi, insoliti e curiosi” di Morello Pecchioli, edito da Gribaudo (ideale seguito di “Le verdure dimenticate” del 2016) vogliamo oggi andare alla scoperta di cinque di queste piante e dei loro frutti, conoscendone l’aspetto, le caratteristiche e, naturalmente, gli utilizzi in cucina. Per non dover dire addio alle delizie dell’orto che gustavano i nostri nonni da bambini e ritrovare, se possibile, la ricchezza di sapori tipica della nostra tradizione.

Le more di gelso

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Innanzi tutto una curiosità: “moro” e “gelso” sono sinonimi, quindi non stupitevi se doveste sentire parlare anche di “more di moro”. Vermigli o bianchi ma sempre molto succosi, questi piccoli frutti pendono dai rami del gelso durante il mese di luglio. Erano l’ambito premio, nel secolo scorso, dei bambini che si sfidavano tra loro ad arrampicarsi sul moro per raccoglierne i primi frutti. Il gelso è la pianta di cui sono ghiotti i bachi da seta ed è stata molto diffusa finché sono esistiti allevamenti di questi animali. Finita la loro epoca, è iniziato uno sconsiderato abbattimento dei gelsi per fare posto all’agricoltura intensiva. Fino a 50 anni fa i gelsi crescevano rigogliosi nella varietà “alba” in Pianura Padana, al sud nella varietà “nigra”. Oggi, anche se si sta riscoprendo la bellezza di queste piante e il loro uso ornamentale, ne sono rimasti pochi esemplari, ricordo di un tipo di coltivazione ormai in disuso.

L’esistenza di more di gelso bianche e nere è spiegata da Ovidio nelle “Metamorfosi” con la leggenda di Piramo e Tisbe, una sorta di Giulietta e Romeo ante litteram. Un amore fra due giovani contrastato dalle rispettive famiglie, che porta gli innamorati a fuggire insieme. I due, che si danno appuntamento sotto un gelso, non si incontreranno mai: la ragazza viene aggredita da una leonessa vicino all’albero, si salva ma perde il suo velo, che si macchia di sangue. Quando Piramo trova il velo, crede che l’amata sia morta, e si getta sulla sua spada. Quando la giovane lo trova, in fin di vita, si suicida con la stessa spada: la triste vicenda commuove gli dei dell’Olimpo, che trasformano le bianche more di gelso, zuppo del sangue dei due giovani, in scuri frutti vermigli.

I frutti del gelso sono oggi utilizzati prevalentemente essiccati nella preparazione del muesli o come snack. Freschi, invece, sono ideali per preparare e decorare diversi tipi di dolci come torte, plumcake o cheesecake. Ottima è anche la marmellata di mora, perfetta sulle crostate. Sono famosi, in Sicilia, il gelato e la granita alla mora. Con questi frutti si preparano inoltre anche succhi, bevande aromatiche e gelatine.

Le giuggiole

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Tanto è famoso il detto “andare in brodo di giuggiole” – che significa toccare il cielo con un dito per la gioia – quanto sono sconosciuti i frutti che hanno permesso all’Accademia della Crusca di coniare questo detto, nel lontano 1621. Il periodo delle giuggiole, frutto dell’omonimo albero, è durato secoli tanto che Erodoto, nel V secolo a.C., raccontava che già Egizi e Fenici utilizzavano questi frutti per preparare una specie di vino. Nel Rinascimento le giuggiole erano un frutto molto ricercato, usato prevalentemente dai cuochi delle corti italiane. La loro popolarità è precipitata negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando il boom economico spazzò via tutti i cibi considerati “poveri” come, appunto, le giuggiole.

Molto coltivato in Veneto, il giuggiolo sta vivendo una nuova stagione: i suoi frutti – sia freschi che essiccati – sono stati recentemente riscoperti per preparare marmellate e conserve, ma anche nella preparazione di dolci e piatti agrodolci, specialmente nell’alta cucina. Ad Arquà Petrarca, in provincia di Padova, si tiene ogni anno una festa in onore di questi frutti dimenticati, forse, ma non ancora scomparsi. Si trovano abbastanza facilmente, infatti, nei mercatini a km zero e presso i contadini, ma anche nei mercati biologici.

Le cotogne

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A metà strada tra le mele e le pere per forma e dimensione, questi frutti non sono né l’una né l’altra cosa: anche se vengono chiamate impropriamente “mele cotogne”, sono in realtà una specie a sé stante. Frutto sacro ad Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore nella Grecia classica, le cotogne erano il simbolo della fertilità e dell’amore, tanto che ogni sposa entrava in casa dello sposo portando in dote uno di questi frutti.

Gli antichi romani usavano tantissimo le cotogne, spesso in abbinamento al miele per mitigarne il sapore acidulo, ma ricavandone anche una bevanda fermentata e piatti di vario tipo. Per esempio il gastronomo Apicio, vissuto nell’antica Roma, suggeriva un piatto a base di porri, cotogne, olio e garum, una salsa liquida fatta di interiora di pesce e pesce salato fermentati…

Da sempre utilizzata nella nostra tradizione culinaria per preparare la cotognata, una marmellata densa tipicamente siciliana, la cotogna è un frutto ormai davvero dimenticato. Anche se si trova ancora nelle piccole botteghe che vendono frutta e verdura, infatti, è sempre meno acquistata e utilizzata. Sopravvive, però, nei modi di dire: in molti dialetti “cotogno” è sinonimo di cazzotto e, spesso, si usa dire “sei bianco come un codogno” per far notare a qualcuno che non abbia una bella cera.

I chinotti

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Il 99% delle persone che sentono la parola “chinotto” pensa immediatamente alla famosa bibita, probabilmente senza sapere che quella bevanda ha origine – o, comunque, dovrebbe averla – da un frutto. Parliamo di un agrume che somiglia all’arancia e che, secondo alcuni, deve il suo nome al Paese di provenienza, la Cina. Da qui, sarebbe arrivato in Europa verso la fine del Cinquecento, grazie a un navigatore savonese. Per altri, invece, il chinotto sarebbe originario del bacino del Mediterraneo, frutto di una mutazione dell’arancio amaro. Il motivo? A oggi, in nessun Paese sudorientale, si trova traccia della coltivazione di questa pianta.

Utilizzato da sempre candito, da solo o nella preparazione di dolci leccornie, il chinotto ha raggiunto la massima diffusione nella Belle Epoque, per la preparazione di aperitivi, sciroppi e liquori aromatizzati. Dopo questo periodo di splendore, il declino di questo frutto è stato lento ma inarrestabile: nel 1990 se ne contava sul territorio italiano solo un centinaio di piante. Il pericolo è stato scongiurato solo grazie all’intervento dell’associazione Slow Food, che ne ha permesso la ripresa della commercializzazione su tutto il territorio.

Ancora oggi questo agrume è usato per fare canditi, dolci, marmellate e mostarde oltre che, ovviamente, le famose bibite che dal chinotto prendono il nome. Un consiglio: anche se il frutto somiglia all’arancia per forma e colore, non conviene sbucciarlo e mangiarne uno spicchio: è davvero acidissimo!

Le carrube

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Piccoli baccelli un po’ sgraziati e poco invitanti, fino a qualche decennio fa le carrube occupavano un posto d’onore sui carretti degli ambulanti di dolciumi, classica merenda dei bimbi più poveri che trascorrevano le giornate a giocare per strada. Oggi che i carretti degli ambulanti sono spariti e che dai fruttivendoli è difficile trovarle, le carrube sono state declassate a mangime per maiali e cavalli che, a quanto pare, ne sono davvero ghiotti. Forse perché hanno un sapore dolciastro, che per molti aspetti ricorda quello del cioccolato.

Al giorno d’oggi è molto più facile imbattersi nella farina di carrube che nei frutti interi, reperibile soprattutto nei negozi di alimentazione biologica e online. Questa polvere è spesso utilizzata dall’industria dolciaria per fare biscotti, gelati, torte, budini al posto del cacao. Anche in casa può essere un ottimo ingrediente per dolci, frullati, creme al cucchiaio e tante altre prelibatezze che prevedano l’impiego del cacao.

La Sicilia è ancora oggi grande produttore di questi frutti, i cui alberi possono tranquillamente raggiungere e superare i 10 metri di altezza e – vegliardi della natura – i 500 anni di vita. Utilizzate come dolcificante già dagli antichi Egizi, le carrube sono state trapiantate in Sicilia dagli Arabi che le usavano come unità di misura. Essendo il loro peso sempre lo stesso (1 quinto di grammo), era infatti possibile usarle per pesare l’oro e le altre pietre preziose. Ancora oggi per pesare l’oro si usa un’unità di misura specifica che ha mantenuto il nome antico, il carato (la parola carruba, in arabo, ha infatti questo significato).

Morello Pecchioli
I frutti dimenticati – Conoscere e cucinare prodotti antichi, insoliti e curiosi
200 pagine
euro 14,90

 

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