Perché i lavoratori dei macelli si sono ammalati di più di Covid-19

Lo studio americano ha spiegato i dati e ora non rimarrebbe che rivedere le condizioni dei lavoratori e i sistemi di produzione.

Uno studio realizzato dalle Università della California ha mostrato come il tasso di infezione nei paesi che ospitano aziende di trattamento delle carni di suini, bovini e di polli è stato fino al 160% maggiore del resto del paese. Insomma, i lavoratori dei macelli e degli stabilimenti che lavorano e imballano le carni si sono ammalati molto di più e hanno trasmesso il virus. Ma perché?

Lo studio pubblicato su Food Policy

La ricerca ha messo in evidenza che nelle contee che ospitano impianti di macellazione e lavorazione delle carni di manzo, suino e di pollo, la popolazione dopo 150 giorni dall’annuncio della presenza del nuovo Coronavirus, avevano percentuali di probabilità di contagio molto più alte di altre contee che non ospitano questi impianti. Nella fattispecie: gli abitanti delle contee che ospitavano impianti dedicati alla lavorazione della carne bovina avevano il 110% in più di probabilità di contrarre la malattia; l’aumento era del 160% per quanto riguarda, invece, la presenza di impianti per la lavorazione delle carni suine; l’incremento era del 20% per le contee con impianti dedicati all lavorazione del pollame.

Lo studio, che ha preso in esame solo impianti di lavorazione molto grandi da circa 4.500 tonnellate di carne al mese, ha messo in evidenza che le motivazioni alla base di questi dati sono principalmente di due tipi: da una parte le condizioni ambientali di lavoro, dall’altra le condizioni sociali dei lavoratori di questo settore.

Le motivazioni ambientali e sociali

L’uso massiccio di acqua per pulire i banconi in acciaio ha messo in modo maggiori quantità di droplet (goccioline d’acqua), uno dei principali veicoli di trasmissione del virus. In più la scarsissima ventilazione dei luoghi, la necessità di alzare la voce per poter comunicare fra lavoratori – emettendo, quindi, più droplet e le temperature basse per mantenere fresca la merce, hanno aumentato la possibilità di viaggiare nell’aria da parte delle gocce potenzialmente infette da un range massimo di 2 metri di distanza, a 8 metri, aumentando di molto il rischio di contrarre il virus fra i lavoratori.

Lo studio ha evidenziato anche che le condizioni di assembramento nelle piccolissime aree dedicate alla pausa del lavoratori, sono state un ulteriore motivo per l’aumento del rischio di contagio.

La cartina che mostra gli impianti di lavorazione delle carni prese in esame dallo studio

Dal punto di vista sociale, invece, è emerso come i casi di Covid-19 fra i lavoratori del settore siano stati molti di più di quelli dichiarati: a causa delle condizioni precarie di lavoro e, spesso, dell’assenza di assistenza sanitaria o di alternative al perdere il lavoro a causa delle assenze per malattia, molti lavoratori si sarebbero, secondo lo studio, recati ugualmente presso gli impianti anche se con sintomi della malattia. Le stime presentate dallo studio, quindi, sarebbero certamente da pensare in difetto sui numeri.

Va ricordato che l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva applicato in piena crisi pandemica, per i produttori di carne il Defense Production Act, ossia una norma varata ai tempi del conflitto in Asia nordorientale all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, a causa della quale lo Stato impone alle aziende di produrre beni necessari o di cui c’è carenza. Trump nel maggio scorso dichiarò: “È importante che i lavoratori dei macelli di carne di manzo, maiale e pollame nella catena di approvvigionamento alimentare continuino ad operare e ad evadere gli ordini per garantire una fornitura continua di proteine per gli americani”.

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