Quando l’attivismo si fa poesia: intervista a Roger Olmos

Si può raccontare ai bambini la realtà terribile e dolorosa dello sfruttamento animale? C’è chi lo fa, spesso “senza parole”, ricorrendo al potere evocativo delle immagini e all’innata empatia dei più piccoli

C’è un momento della vita in cui tutti proviamo un amore innato verso ogni essere vivente: è l’infanzia. Poi cresciamo e l’educazione e il contesto sociale spesso remano contro questa naturale empatia, che finiamo per perdere per strada, pezzo dopo pezzo. Ma può bastare un’immagine sola a far cadere il velo che copre la presunta normalità quotidiana, e a farci tornare nuovamente bambini, e un po’ più umani.

È quello che è successo a Roger Olmos, illustratore spagnolo tra i più acclamati in Europa, che con il suo attivismo poetico racconta ai bambini le storture del sistema basato sullo sfruttamento animale. Il suo SenzaParole è considerato un capolavoro della letteratura dell’infanzia degli ultimi anni, oltre che un caposaldo dell’editoria sui diritti degli animali. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare come nascono le sue storie, quali sono le “parole che mancano” dai suoi libri, come mai i bambini li amano così tanto. E perché la battaglia, vera, è quella con gli adulti, loro genitori.

Roger, con i tuoi libri fai una cosa che pare difficilissima: raccontare ai bambini un tema complicato e doloroso quale lo sfruttamento animale. Come ci riesci?

Non smettiamo mai di essere un po’ bambini, o almeno io. Nel percorso della mia vita è rimasto qualcosa del bambino che sono stato. Ecco, io provo a capire la realtà come la vivono loro. I bambini sentono un amore innato, un senso di protezione, di avvicinamento verso tutto quello che è vivo, animale o umano che sia. Ai bambini piacciono gli animali, e hanno questa fascinazione per la scoperta. Prova a immaginare un bambino innamorato di un coniglietto (che non conosce ancora la verità delle fattorie, dei mattatoi), che vede l’immagine di qualcuno con un coltello che fa del male all’animale. Quale può essere la sua reazione? Piangere come un matto. Io parto dall’immagine più forte e penso a un modo di mostrarla per sottrazione fino a renderla una cosa che fa intuire al bambino che lì c’è qualcosa che non funziona. Si tratta, innanzitutto, di non cadere nell’ovvietà, in immagine stereotipate, come quella del maialino che piange o del coltello. Si tratta di trovare un modo di mostrare un’immagine che arrivi al cuore, che faccia pensare anche se non mostra direttamente quello che sta succedendo, che abbia una luce e una composizione speciali, che metta dentro la pelle della vittima per far vedere la situazione dal suo punto di vista. Questo non dicendo al bambino che quella cosa è il male, ma inducendolo a pensare, a giocare con la sua capacità di intuizione e anche con la sua naturale sensazione di appartenenza a tutti gli esseri viventi. Si tratta di prendere l’amore innato che i bambini provano per gli animali e metterlo un po’ in discussione per fare capire loro che c’è qualcosa che non va nelle immagini che vedono.

Viene da pensare che i tuoi libri siano perfetti anche per noi adulti visto che poi a un certo, da grandi, certe cose smettiamo di vederle e anche forse di sentirle. Cosa ci succede?

Quando cresciamo c’è tutta un’industria pensata per rompere l’empatia verso gli altri esseri viventi, perché possiamo dimenticarci di tutto questo e sostituire il valore della vita degli altri con la nostra necessità di nutrirci, di vestirci, di divertirci. C’è la pubblicità, ci sono anche i libri per i bambini, che normalizzano, coprono lo sfruttamento degli ani- mali e ce lo fanno vedere come una cosa normale, divertente, necessaria. E allora, man mano che cresciamo, iniziamo a separarci dalla nostra parte empatica e iniziamo a pensare di avere bisogno di certe cose. Questo è normalizzare. È una cosa che succede da millenni, da quando l’uomo doveva farlo perché non aveva alternativa allo sfruttamento animale, fino a oggi, con una grande industria, e molti soldi, dietro a tutto questo.

“Happy Meat”, Roger Olmos (@el_olmos)

Cosa dicono i bambini dei tuoi libri?

Io non cerco il pubblico che già la pensa come me. È più interessante arrivare a chi ancora non pensa a certe cose. Per questo, in tutti i miei libri io non dico mai che cosa devi fare, ma mi limito a mostrare una realtà. E i bambini capiscono perfettamente, da subito, il messaggio. L’idea che c’è dietro ai libri più attivisti è dire ai bambini che dietro a tante cose che fanno fare loro i genitori c’è un tradimento: ti comprano i libri che parlano degli animali, ti fanno vedere i cartoni animati nei quali agli animali si vuole bene e poi torni a casa e ti mettono il pollo nel piatto. Ma il bambino non fa la connessione. Ecco, con libri come i miei i bambini iniziano a fare la connessione. Poi, la mia battaglia è con i genitori.

E loro come reagiscono?

Alle fiere mi è capitato di incontrare genitori che mi hanno raccontato che dopo aver letto i miei libri i bambini non hanno più voluto mangiare la carne e hanno riconosciuto che era una cosa buona. Mi riportano un riscontro positivo. Ci sono genitori che comprano i miei libri su suggerimento dei librai o perché ai bambini piacciono le immagini (poi a casa non so che cosa succeda in questi casi!), altri che appena capiscono di cosa si tratta non ne vogliono
sapere. Poi, ci sono i genitori che hanno un’empatia forte e che vogliono spiegare ai figli il perché delle proprie scelte senza dover passare da documentari molto forti. In questo caso, i miei libri sono un modo più poetico per spiegare ai bambini cosa succede senza che rimangano traumatizzati.

SenzaParole è il tuo libro più noto e anche quello al quale hai detto di essere più legato. Ci spieghi quali sono queste“parole che mancano”?

Le parole che mancano sono, ovviamente, quelle degli animali: “aiuto”, “non voglio esse- re qui”, “voglio essere libero come te”, “mi fa fa male”. Mancano tutte queste parole. Gli animali non parlano e noi umani facciamo di tutto per coprire questa voce minima che loro hanno. E poi sono anche le parole che mancano a noi quando vediamo cosa c’è dietro alle situazioni che, fino a quel momento, nella nostra vita avevamo normalizzato. Viviamo per molti anni una “vita normale”, così per come veniamo educati. Poi un giorno arriva qualcuno che ci fa vedere la verità, cambia tutto all’improvviso e in un minuto prendiamo la decisione di cambiare il modo in cui abbiamo vissuto per 30 anni. È un processo complicato, e le persone hanno sensibilità diverse. Per esempio, la gente si scandalizza quando vede che i cinesi mangiano il cane. Ma perché si scandalizzano per un cane e non per il maiale?

Privo di testo, “Senza parole” è una riflessione silenziosa sui diversi modi e livelli in cui gli uomini condannano alla sofferenza gli animali,  dallo sfruttamento delle mucche a quello degli elefanti nei circhi, dall’industria della pelliccia alle orche negli acquari

È una questione culturale, credo…

Ma la natura non capisce di cultura. La cultura è qualcosa che abbiamo creato noi. Se tagli un orecchio a un cane in Cina lui prova lo stesso dolore che prova un maiale se gli fai la stessa cosa in Italia. Il dolore è lo stesso. Non è una questione culturale che fa sì che il dolore sia di più o di meno.

Dicevi di come, in un minuto, rimanendo senza parole, si può scegliere di cambiare molto di come si è vissuto fino a un attimo prima. È quello che è successo a te? Come sei diventato vegano?

Prima di essere vegano mi piacevano moltissimo gli animali, ero incapace di fare loro del male. Ero quello che se vedeva una lumaca sulla strada la raccoglieva e la mett va nell’erba. Ma mangiavo la carne. Fino a quando, circa 12 anni fa, la mia compagna mi ha detto che c’era un documentario che dovevo vedere, Earthlings. Non sono riuscito a finirlo, ho iniziato a
piangere come un bambino e ho detto basta. Ho preso una decisione coerente con il mio modo di pensare, così un giorno per l’altro. La mia compagna era vegetariana, poi è diventata vegana anche lei. A casa è stato facile.

E fuori?

La battaglia era fuori. Il problema non è tanto confrontarsi con il sistema industriale. La battaglia è confrontarsi con il proprio contorno sociale. Succede sempre una cosa a chi decide di fare questo cambiamento: diventiamo per gli altri all’improvviso stupidi e rompiballe. Quando provavo a raccontare ai miei amici cosa avevo scoperto mi dicevano che ero invasato, che rompevo le scatole. E ottenevo l’effetto inverso. Così, ho imparato a rispettare gli altri, a non dire niente a meno che qualcuno non chieda. Quando vado fuori con gli amici, io mi faccio la mia pasta coi legumi, loro la loro cotoletta. E quando mi chiedono se so cosa mi sto perdendo, allora sì, inizio a parlare. E torno il rompiballe di sempre!

Ti piace cucinare? Qual è il tuo piatto preferito?

Mi piace, e a casa sono io che cucino. Ma non sono un gourmet. Non sono uno che ha bisogno di provare tante cose diverse. Se sono fuori, mi piace assaggiare, ma a casa sono felice con un piatto di riso integrale, lenticchie e verdure.

Qualche anno fa, tu spagnolo, hai raccontato uno dei protagonisti assoluti della letteratura per l’infanzia di noi italiani, Cosimo de “Il barone rampante”. Si potrebbero dire molte cose di questo personaggio, a proposito del suo rapporto con la natura e del coraggio di portare avanti le proprie scelte. A te cosa ha insegnato?

Quando mi hanno proposto di illustrarlo, conoscevo qualcosa di Calvino ma non Il barone rampante. L’ho letto quattro volte e ho capito che avevo due possibilità: raccontare per immagini, dal punto di vista di noi che abitiamo con i piedi per terra, la storia di un ragazzo “pazzo” e ridere un po’ di lui. Oppure, potevo stare vicino a Cosimo, stare con lui sugli alberi e approfondire la sua visione della società e il fatto che quelli che sono un po’ pazzi, in realtà, siamo noi. E questo mi è sembrato un modo più interessante. Perché non possiamo abitare sugli alberi e guardare da lì tutte le regole e tradizioni che ci siamo dati? Dal punto di vista di Cosimo, siamo tutti pazzi. Certo, poi siamo esseri sociali e abbiamo bisogno della relazione con gli altri. Lui ha delle difficoltà da questo punto di vista, ma sono gli altri che devono abituarsi. Lui rimane super fedele a se stesso. Questo è anche il punto di vista che ho adottato io in questo lavoro. Il barone rampante è un libro molto importante. Calvino è il vostro Cervantes. Ma io non l’ho illustrato pensando che dovesse piacere agli italiani, ma a come io vedevo Cosimo e a quello che ho imparato da questo romanzo, senza curarmi di quello che pensano gli altri. È un po’ quello fa Cosimo, e anche la sua lezione.

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