Embrioni uomo-pecora, Marchesini: “Nuovo passo della guerra agli animali”

C’è chi parla di rivoluzione medica e chi di abominio: l’etologo e filosofo Roberto Marchesini sulla questione parla chiaro “Qualche colpa ce l’ha anche il movimento animalista”.

Far crescere organi umani negli animali per trapiantarli in pazienti malati. Fantascienza? Non proprio, dato che pochi giorni fa gli scienziati dell’università della California Davis al meeting della American Association for the Advancement of Science di Austin (Texas) hanno annunciato di essere stati in grado per la prima volta di dar vita a un embrione ibrido uomo-pecora in cui 1 cellula su 10.000 è umana. Un fatto che i ricercatori hanno salutato con entusiasmo dato che l’ultimo esperimento (risalente a un anno fa circa) di creazione di un embrione interspecie (detto tecnicamente chimera) uomo-maiale presentava 1 sola cellula umana su 100.000. Inutile dire che esattamente come un anno fa, anche in questo caso, l’eco mediatico che la notizia ha suscitato una scia di polemiche tra sostenitori e detrattori non è mancata, ma del resto le implicazioni etiche e filosofiche che l’evento si porta dietro sono molto delicate e complesse.

Sebbene il risultato ottenuto sia ben lontano da una possibile applicazione pratica e gli embrioni creati siano stati distrutti dopo 28 giorni (secondo i limiti di legge)  lo scopo ultimo del team di ricercatori capitanato dal biologo riproduttivo Pablo Ross sarebbe quello di sopperire alla grave mancanza nel mondo di organi da destinare ai trapianti facendo crescere negli animali di taglia paragonabile a quella dell’uomo organi formati da cellule umane in modo da evitare l’alto rischio di rigetto da parte dell’organismo ospitante che caratterizza solitamente le operazioni di trapianto.

“Ancora oggi persino gli organi più compatibili, eccezion fatta per quelli provenienti da gemelli identici, non resistono molto a lungo perché nel tempo il sistema immunitario continua ad aggredirli” ha affermato Ross in previsione degli inevitabili attacchi e aggiungendo che lo scopo della ricerca è offrire “speranza alle persone che muoiono ogni giorno”.

Ma se da un lato c’è chi sostiene che si tratta di una conquista medica eccezionale ed aspetta con trepidazione le evoluzioni future, c’è invece chi considera questi esperimenti una nuova sfida alla Natura e una nuova violazione dei diritti degli animali, vittime innocenti del cosiddetto progresso scientifico come già le scimmiette clonate in Cina, Zhong Zhong e Hua Hua.

Abbiamo chiesto a Roberto Marchesini –  etologo, filosofo e direttore di Siua, Scuola di Interazione Uomo-Animale – di riflettere sulle implicazioni etiche di una tale evoluzione (o involuzione) scientifica in ambito medico.

La possibilità (remota) di evitare il rigetto nei pazienti sottoposti a trapianto (e quindi di salvare loro la vita) giustifica la possibilità di far crescere cellule umane negli animali?

Il problema è molto più complesso perché l’organismo non è una macchina dove i diversi meccanismi sono disgiunti tra loro anche se innescati l’uno dall’altro. Il corpo è un sistema ove ogni tessuto è costruito attraverso processi di metabolismo e infusione. In altre parole, qualunque tessuto xenobiotico (cioè estraneo al normale metabolismo di un organismo – nda) innestato viene invaso dall’ospite e ibridato, come peraltro dimostra l’evoluzione metastatica dei tumori. Oggi sappiamo peraltro che nelle strutture genetiche di altre specie sono incubati diversi virus detti provirus che rischiano di essere risvegliati e trasmessi attraverso il trapianto xenobiotico. Gli xenotrapianti (trapianti che utilizzano cellule, tessuti e organi provenienti da un individuo appartenente a una specie diversa da quella del soggetto sul quale viene effettuato – nda), già ipotizzati a partire dagli anni ‘80 per esempio attraverso i suini, hanno dimostrato di accrescere i problemi più che risolverli. Credo che questa non sia pertanto la strada da perseguire anche volendo assumere una prospettiva antropocentrica. Penso viceversa che seguire la ricerca su staminali e tessuti omologhi sia la strada da perseguire. Poi ovviamente c’è tutta la riflessione etica che ci mette di fronte a innumerevoli questioni. Ne cito alcune: è corretto destinare risorse per un progetto che aumenta la forbice tra chi potrà permettersi certi interventi e chi no? È giustificabile destinare risorse a un progetto dai risultati dubbi piuttosto che metterli per la prevenzione dei processi degenerativi e della cura delle patologie? È moralmente accettabile perseguire un’applicazione che presenta molti interrogativi sotto il profilo epidemiologico ovvero di possibili rischi di trasmissione di patologie oggi non presenti? È eticamente sostenibile l’utilizzo di esseri senzienti come contenitori di organi? Penso che anche le persone meno coinvolte sulla sofferenza animale qualche dubbio dovrebbero averlo.

In che modo vengono violati i diritti animali se si tratta di embrioni e non di esseri coscienti. Si apre un nuovo scenario?

Qui il problema nasce proprio dal concetto di soggettività e di interesse inerente. Non credo che la coscienza sia la qualità sine-qua-non del diritto, altrimenti basterebbe una bella anestesia per fare qualunque cosa. Ma, come dicevo, il problema etico è assai più complesso del principio di senzienza. Non mi ha mai convinto l’idea che l’inerenza, da cui il concetto di vincolo morale, o di status di paziente morale, possa essere derivato dal famoso “possono soffrire”, perché l’inerenza nasce dalla titolarità, come giustamente ha suggerito Tom Regan, vale a dire dalla self-ownership che caratterizza l’essere animale. Anche il concetto di senzienza peraltro non può esaurirsi nella consapevolezza del sentire, perché esistono molti livelli del sentire: quando dormo non mi trasformo in un orologio. Dovremmo riprendere il concetto di soggettività animale e non fermarci ai piani bassi del dolore.

Embrione uomo pecoraLe notizie degli ultimi mesi, fra i cloni cinesi e questa ibridazione, sembrano allargare lo spettro dello sfruttamento animale: come si spiega lei questo continuo far riferimento al mondo animale e alla mancanza (almeno apparente) di riflessioni alternative? Pigrizia? Mancanza di fondi? Cultura specista?

Il problema è diffuso e riguarda un rifiuto generalizzato di riconoscere al non-umano un proprio spazio di vita. Ovunque assistiamo a uno sfruttamento massivo del mondo animale, una vera e propria “guerra agli animali” come ho scritto in altri contesti, una guerra che assomiglia a un genocidio. Rubiamo loro ogni spazio di sopravvivenza, li si uccide esibendone le spoglie come nelle azioni di guerra, stiamo portando avanti da anni un progetto di estinzione di massa, li consideriamo come oggetti alla faccia di Darwin e di Lorenz, teniamo cani e gatti rifiutando la loro espressività etologica, siamo intolleranti verso qualunque presenza animale… e potrei continuare. No, non è pigrizia, è una guerra, forse la peggiore e la più violenta condotta dall’umano.

Ritiene che questi “passi indietro” siano il sintomo di una mancanza di forza della cultura animalista ed antispecista nel mondo?

La cultura antispecista ha a mio parere colpe gravi perché non ha mai cercato una piattaforma comune di obiettivi da perseguire, preferendo dividersi su tutto e cercare al proprio interno i fantomatici nemici. Lo so di non essere popolare a dire ciò ma credo che ci sia in questo mondo troppo narcisismo, voglia di emergere, frustrazioni che non si traducono in mentalità pragmatiche ma nel desiderio di trovare un proprio misticismo. Per risolvere questo gap culturale occorre essere uniti, pragmatici, altruisti, liberi di esprimere le proprie idee senza dogmatismi, con voglia di confronto e capacità negoziali, senza la pretesa di mostrarsi migliori e di fare incetta di like. Difficile per i non umani essere aiutati da questi umani che, anche quando li difendono, pensano ossessivamente a se stessi. Poi, peraltro, capisco che al di là degli errori interni, il problema sta nella difficoltà implicita del compito e allora comprendo anche le intemperanze che nascono da frustrazioni. Tuttavia una società migliore si costruisce con il dialogo e non con la polarizzazione… io perlomeno la penso così.

Ricerca senza animali, Penco: “La tradizione è comoda, l’innovazione costa”

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