Antipatia vegana
Spunti di riflessione per compilare insieme un dizionario vegano contemporaneo

Ogni settimana, uno spunto di riflessione – spesso polemico – sulle tematiche che ci stanno a cuore.
Quando si è vegani e lo si manifesta apertamente in pubblico con amici o nuovi conoscenti, la reazione che otteniamo, per la maggior parte della volte, non corrisponde all’immagine del buon umore. Riceviamo in cambio un misto tra stupore, facce sgomente e qualche passo indietro, come se all’improvviso la nostra persona fosse portatrice di una sorta di virus un po’ fastidioso (capita anche quando diciamo di avere il raffreddore, pensandoci).
La verità è che la parola “vegano”, coniata nel 1944 da un “distaccamento” della società vegetariana londinese, è associata in Italia a persone aggressive, petulanti, un po’ freak e con le quali andare a cena è un vero supplizio. Perché? La risposta è duplice: perché c’è davvero chi è così e, in secondo luogo, perché i media, negli ultimi 10 anni circa, hanno cercato di fomentare dubbi, perplessità e paure verso una scelta filosofica (che lo è lo ha stabilito anche un tribunale inglese) e alimentare che ha obiettivi semplici, di grande buon senso e molto utili, visti i tempi che corrono.
Il problema è che a volte le cose semplici sono difficilissime da spiegare. Chi sceglie di non mangiare carne e derivati sta esprimendo politicamente ed economicamente la sua contrarietà assoluta ad un sistema di produzione antiquato, economicamente non funzionale e crudele: gli animali hanno diritti, soffrono, gioiscono e meritano quindi di vivere la loro vita senza finire nei nostri piatti. Fine.
Mettici che le proteine vegetali funzionano perfettamente e che quindi problemi per la salute non ce ne sono, anzi semmai il contrario, e ottieni una domanda: “Perché non farlo?”. Detto questo, è chiaro che ogni cambiamento di paradigma porta con sé, da sempre, una ventata forte di opposizioni. È successo anche con la luce elettrica.
Aver preso consapevolezza di un processo e scegliere di cambiare le proprie abitudini non significa che tutti gli altri (e sono davvero tanti) siano poco intelligenti. La maggior parte dei vegani seguiva un’alimentazione “normale” prima, e perciò sa bene perciò che questo non li rendeva meno “qualcosa”.
Partire dal presupposto che chi è vegano ha capito meglio e sta salvando il mondo mentre gli altri no, è senza dubbio un pensiero umano (se non altro perché la voglia di cambiare le cose, quando si vede come stanno davvero, è forte), ma non troppo funzionale. Abbiamo preso una decisione: la prima cosa – e la più utile – è usare il proprio esempio per raccontare che si può fare e che si sta anche meglio.
Poi esiste l’attivismo che ha un ruolo fondamentale, ma non tutti sono adatti a praticarlo e non tutti i metodi per cercare di parlare di questo argomento funzionano.
Separare il “noi/voi”, non ha mai portato da nessuna parte, anzi, crea sempre conseguenze nefaste. L’approccio dialogante, quello del terreno comune è spesso il migliore ma va capito anche che non sempre funziona. Dall’altra parte, infatti, deve esserci la volontà di ascoltare. C’è da dire che potrebbe diventare più probabile trovarla se evitiamo di presentarci come i salvatori dell’universo. Stiamo provando a cambiare qualcosa del nostro quotidiano, è vero, questo qualcosa è certamente utile anche a livello generale, ma niente tuta da supereroi.
Infine: va anche detto che essere antipatici alla maggioranza non sempre è un male.
(Questo articolo è tratto da “Indigestioni”, una rubrica che trovate sul nostro mensile, Vegolosi MAG)
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