Il cibo vegetale ci insegna che nessuno è straniero

La storia dell’agricoltura ci insegna una lezione di grande attualità: nulla è veramente “nostro”. A partire dalla tavola le contaminazioni e l’intreccio delle culture sono fondamentali

La pizza, simbolo di italianità in tutto il mondo, fatta con la farina di frumento. Il più semplice dei piatti di pasta al pomodoro. O il risotto giallo, quello tipico milanese. C’è, forse, qualcosa di più nostrano e tradizionale? No, verrebbe da rispondere. E se, invece, questi piatti ci raccontassero una storia in parte diversa, fatta di migrazioni, viaggi, contaminazioni sociali e culturali? Se proprio gli alimenti vegetali alla base della nostra tradizione culinaria ci dessero una lezione di grande attualità oggi rivelandoci che nulla è davvero straniero e diverso, a partire proprio dalla tavola o da un campo coltivato?

Ne abbiamo parlato con Stefano Bocchi, professore di Agronomia e Agroecologia presso l’Università degli Studi e il Politecnico di Milano, in occasione della mostra Di seme in seme. All’origine delle piante coltivate”, visitabile fino alla fine di ottobre alle Centrale dell’acqua di Milano, dedicata proprio alle origini e ai lunghi viaggi di frumento, riso, farro, soia, mais, le piante alla base della nostra alimentazione. “Ogni coltura ha avuto una sua origine geografica. Ma – spiega Bocchi – centri di origine relativamente ristretti delle piante coltivate sono stati nel tempo seguiti da traiettorie, viaggi, corridoi di diffusione: è così che oggi ritroviamo queste grandi colture in tutti i continenti”.

Nessuno è straniero, neanche tra le piante

La lezione è valida anche per noi italiani, così legati a un concetto di cucina tradizionale da rifiutare talvolta lo “straniero” persino a tavola, come evidenza anche la diffidenza diffusa nei confronti dell’alimentazione a base vegetale, tacciata spesso di esterofiilia. “Anche noi possiamo dire di aver ricevuto da altri tutta la ricchezza delle piante che conosciamo perché non esiste una vera e propria coltura che possiamo definire ‘nostra’, italiana, dal punto di vista dell’origine. I cereali – spiega il professore – li abbiamo tutti importati. I grandi viaggi e le grandi migrazioni hanno costituito per noi delle grandi ricchezze che abbiamo ricevuto e poi a nostra volta sviluppato. In tutti i posti del mondo c’è sempre stata un’agricoltura che ha fruito di questi viaggi e poi ha saputo trovare una caratterizzazione locale: ogni civiltà ha, infatti, sviluppato particolari tecniche di trasformazione e di fruizione delle piante, in termini di ricette e piatti”.

Storie di migrazioni

E’ così che le storie delle migrazioni delle piante si sono intrecciate a quelle degli uomini e del progresso sociale e culturale dell’umanità. Come nel caso del piccolo farro, il primo frumento addomesticato e coltivato con successo ottomila anni fa, originario di quello spicchio di terra bagnato dai grandi fiumi Tigri, Eufrate, Nilo, Oronte, Giordano, la Mezzaluna fertile compresa tra Irak, Iran, Turchia, Palestina, Libano ed Egitto. Qui viveva allo stato selvatico insieme a tante altre piante. Oggi, viene considerato il padre del primo frumento coltivato, il Triticum monococcum, che i nostri antenati, rimasti fino ad allora raccoglitori, utilizzarono per organizzare un’esistenza più stabile e diventare stanziali. Il monocolo accompagnò i neoagricoltori nei loro spostamenti su rotte terrestri e nautiche e fu così che sette mila anni fa, proprio dal Medio Oriente, l’agricoltura arrivò anche a casa nostra, nell’Europa centrale.

Una storia simile a quella del riso, seconda pianta cardine dell’alimentazione umana insieme al frumento, originaria delle pendici dell’Himalaya, nell’area compresa tra India, Pakistan, Nepal, oggi diffusa in tutti i continenti e coltivata fino a 3mila metri sopra il livello del mare. Poi ci sono i grandi farri, che raccontano, per esempio, di come i frumenti ancestrali abbiano ricoperto ruoli cruciali, non solamente come fonte alimentare ma come propulsore di sviluppo culturale. “Pensiamo a Roma antica, allo sviluppo tecnologico collegato alla coltivazione del frumento e alla sua trasformazione per ottenere il pane o a quella dell’orzo per ricavarne la birra. Il mondo romano – racconta Bocchi – seppe usare le coltivazioni anche come armi strategiche come quando, dopo aver distrutto Cartagine, ne riempirono i campi di sale perché non potesse più essere coltivato nulla”.

Il caso della soia

Una storia di rilevanza strategica sotto svariati punti di vista, da quello economico a quello ambientale e della tutela del benessere animale, la raccontano, invece, le “migrazioni” contemporanee di un’altra pianta, la soia. Questa leguminosa originaria dell’Asia Centro-Orientale è oggi al vertice delle classifiche per la produzione di proteine vegetali delle quali è ricchissima (il suo seme contiene il 38-40% di proteine). “La storia della soia è interessante da diversi punti di vista. È una cultura asiatica originaria della Cina attuale. Oggi – spiega Bocchi – è la fonte proteica principale che caratterizza i mercati agricoli mondiali. Quando vogliamo spostare proteine, il mercato del quale parliamo è quella della soia. Si tratta di proteine importanti per l’alimentazione umana, ma ancor più, per come è organizzato oggi il mercato, per l’alimentazione animale”.

Succede anche in Italia, che importa grandi quantitativi di semi di soia soprattutto da Brasile e Argentina principalmente per soddisfare la richiesta degli allevamenti intensivi, così come d’altra parte avviene nel resto d’Europa. “Parlare di soia oggi significa parlare di storia, di mercati, di impatti dell’agricoltura, di allevamenti intensivi e di grandi interessi che, soprattutto tra Cina e Stati Uniti si confrontano”. Per quanto riguarda l’Europa, in particolare, assistiamo a un vero e proprio paradosso collegato alla soia straniera, sottolinea il professore: “Abbiamo grossi problemi di inquinamento proprio perché importiamo azoto sotto forma proteica, cioè sotto forma di granella di soia. Poi, però, non riusciamo a controllare il ciclo dell’azoto, con impatti rilevanti sulla qualità delle acque sia superficiali che più profonde. Più aumenterà la richiesta di carne, più ci saranno di questi problemi – ribadisce Bocchi – a meno che non si rivedano i modelli di produzione”.

 

L’origine delle piante e la salvaguardia della biodiversità

Le migrazioni delle piante e le contaminazioni culturali ed economiche che hanno prodotto e di cui ci parla il professor Bocchi sono anche la storia di Nikolaj Vavilov, il botanico russo che all’inizio del Novecento per primo ha individuato e studiato i centri di origine delle piante coltivate e i loro spostamenti attraverso i continenti. “Vavilov andava a raccogliere varietà di piante in tutto il mondo: lì dove era maggiore la biodiversità, più probabile era che ci fosse un centro di origine di coltivazione. Fu così che individuò otto centri di origine di piante coltivate. Oggi gli studi ci dicono che abbiamo perso il 60/70% delle piante coltivate studiate da Vavilov, in termini di specie e di varietà. La Fao lancia ogni anno l’allarme relativo a questa forte perdita di biodiversità: la prossima sfida che abbiamo davanti è continuare a mantenete i livelli produttivi migliorando l’accesso al cibo a livello globale”.

Ed è proprio nelle analisi del padre degli studi sulla biodiversità, conclude Stefano Bocchi, che possiamo rintracciare un insegnamento valido per provare a dare una risposta alle sfide poste oggi all’agricoltura da fenomeni quali i cambiamenti climatici, l’aumento della popolazione mondiale e la tutela dell’accesso al cibo: “L’agricoltura industriale come la viviamo oggi, anche in Italia, mette a rischio l’agrobiodiversità, che rappresenta un capitale inestimabile. Salvaguardare le colture e la loro biodiversità – è il messaggio – è la garanzia della sicurezza alimentare”.

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