L’ipocrisia del polpo e la scelta vegana

Quando siamo davanti al cibo ci pervade una forma strana di ipocrisia. Una giornalista del “The Guardian” ci stimola a trovargli un nome.

Da poco mi è capitato di vedere una serie di interviste dedicate al tema del veganesimo fatte a persone scelte a caso per la strada. La domanda era: “Lei ama gli animali?”, la risposta è ovvia da immaginare. Quando l’intervistatore metteva il punto sulla questione chiedendo “E li mangia gli animali?”, quello che appariva sui volti dei malcapitati era lo sguardo del nervo scoperto, come se due fili elettrici fossero stati collegati all’improvviso; praticamente tutti hanno risposto “Lo so, è una contraddizione, lo capisco, è un po’ ipocrita”.

Sul quotidiano “The Guardian” l’editorialista Elle Hunt ha parlato apertamente di questo tema, affrontandolo come una sorta di riflessione catartica ad alta voce. La sua storia è strana: questa giornalista ha deciso di non mangiare, già da molti anni, i cefalopodi ossia quella famiglia di molluschi che comprende, per capirci,  anche il polpo e le seppie.
“Sono troppo intelligenti, pieni di qualità, in sostanza sono troppo strani per poterli mangiare con la coscienza a posto”.

Eppure la Hunt ha ben chiaro che mucche, maiali, pecore, agnelli, galline, non hanno nulla di diverso: solo li conosce meno e “questo li rende, forse, più appetibili”. Questa giornalista, è chiaramente in buona compagnia dato che, nel momento in cui scrivo, ancora la maggior parte del pianeta continua a mangiare la carne e i suoi derivati.

Il meccanismo che sta dietro all’alimentazione onnivora è esattamente contrario a quello che prelude alla scelta vegana. Melanie Joy, psicologa americana, vegana e attivista antispecista (nella foto), lo ha spiegato meglio di tutti in “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche“, uno dei libri più potenti e chiari che possiate leggere sull’argomento. Il meccanismo che ci permette di mangiare una bistecca di maiale ma non una di Golden Retriever si chiama “dissociazione” e si basa sulla scelta di una di queste tre strade una volta che ci troviamo davanti al disagio morale:

  • Possiamo cambiare i nostri valori morali per farli corrispondere ai nostri comportamenti
  • Possiamo cambiare i nostri comportamenti per farli corrispondere con i nostri valori morali
  • Possiamo cambiare la percezione delle nostre azioni per farle apparire in armonia con i nostri valori

Senza farla troppo lunga, quello che succede quando azzanniamo la bistecca è la risposta tre. Ma non siamo stati solo noi a modificare la percezione che abbiamo degli animali, bensì è stato il sistema, la società, l’economia. Disegni di maiali che si affettano da soli, mucche che pascolano con allegrezza in campagna, galline felici, carne rosa e senza sangue nelle vaschette, e una dolce melodia ripetitiva che dice: “Proteine nobili indispensabili“, hanno fatto il resto, creando, come ha spiegato bene il sociologo Nicola Righetti, anche una sorta di mitologia.

I vegani, i vegetariani sono un po’ degli emarginati, rompono lo schema e la tradizione, si isolano socialmente, ti mettono nelle condizioni di dover pensare, in poche parole sono una spina nel fianco da accantonare e relegare all’interno dello stereotipo degli “hippies ricchi e viziati” con un po’ troppa emotività. Sempre Malenie Joy scrive: “L’intorpidimento mentale è adattativo, o utile, quando ci aiuta a far fronte alla violenza […] trasformando la nostra empatia in apatia“. Non ci curiamo più di cosa stiamo mangiando: è sempre stato così, fine dei discorsi.

Insomma, l’ipocrisia del polpo affligge molti compresi tutti i vegani e i vegetariani prima che lo diventassero. Ricordo ancora molto bene la reazione che ebbi quando mi fecero notare che quello che mangiavo era un animale: ero stata smascherata a me stessa e mi arrabbiai parecchio. Dopo 10 minuti ero in rete a scaricare l’ebook di “Se niente importa” e ora, beh, ora sono qui.

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