Amazzonia: la foresta emette più CO2 di quanta ne assorbe, ha smesso di “respirare”

La conferma in uno studio di “Nature”: la colpa è della deforestazione e degli incendi compiuti per far spazio ad allevamenti e coltivazione della soia

Il grande polmone verde della Terra, la foresta amazzonica, ormai produce più anidride carbonica di quella che riesce ad assorbire. Di fatto, a causa soprattutto della deforestazione attuata con gli incendi dolosi per far spazio ad allevamenti bovini e coltivazione della soia, ha smesso di “respirare”. Dopo anni di rilevazioni, e allarmi lanciati a livello globale contro le scellerate politiche ambientali del governo Bolsonaro, la conferma è arrivata in questi giorni da un importante studio pubblicato sulla rivista “Nature”. Pubblicato a seguito di un monitoraggio dei livelli di CO2 nella foresta durato dal 2010 al 2018, ha evidenziato come del miliardo e mezzo di tonnellate di CO2 emesso dall’Amazzonia ogni anno a causa degli incendi e delle attività antropiche, la foresta riesca ad assorbirne solamente un terzo.

Un bilancio in perdita

«La prima pessima notizia — ha spiegato al “The Guardian” Luciana Gatti, dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale in Brasile, che ha guidato il team della ricerca — è che bruciando le foreste producono circa tre volte più CO2 di quanta ne assorbano”. Non solo. Lo studio di “Nature” ha evidenziato il ruolo primario del disboscamento intensivo in questo processo: lì dove la deforestazione è pari o superiore al 30%, le emissioni di carbonio risultano, infatti, 10 volte superiori rispetto a quelle in cui la deforestazione è inferiore al 20%.

I roghi hanno poi l’effetto di perpetrare nel tempo gli effetti in termini di emissioni. Anche quando non brucia, hanno rilevato gli studiosi, la foresta continua ad emettere CO2 perché l’ecosistema pluviale si è sta progressivamente indebolendo troppo: meno alberi fanno sì che piova sempre meno e che, con il passare degli anni, aumentino siccità, ondate di calore e roghi incontrollati azionando così un circolo vizioso sempre più pericoloso. Non è un caso che, sopratutto negli ultimi tre anni, le emissioni di anidride carbonica nell’area siano aumentate in maniera vertiginosa segnando un +10% nel 2019 e un +20% nel primo semestre del 2020.

Un accordo “per salvare l’Amazzonia”

E’ così che, paradossalmente, l’area del Pianeta che dovrebbe rappresentare il principale “pozzo” di assorbimento delle emissioni legate alle attività antropiche (gli alberi e le piante in crescita in Amazzonia hanno assorbito circa un quarto di tutte le emissioni di combustibili fossili dal 1960) si sta trasformando in una delle fonti principali di anidride carbonica e, di conseguenza, in un fattore primario di accelerazione della crisi climatica globale.

Anche per questo, la necessità di un cambio di rotta risulta fondamentale, confermano gli stessi scienziati: “Immaginate se potessimo vietare gli incendi nella foresta. Tornerebbe a essere un convertitore naturale di anidride carbonica in ossigeno. Invece – ha sottolineato Gatti – stiamo facendo il contrario: stiamo accelerando il cambiamento climatico. Abbiamo bisogno di un accordo globale per salvare l’Amazzonia”. La ricercatrice si è soffermata anche sul paradosso che sta dietro la deforestazione in termini di produttività agricola: “Non usiamo la scienza per prendere decisioni – ha sottolineato -. La gente pensa che convertire più terra in agricoltura significherà più produttività, ma in realtà perdiamo produttività a causa dell’impatto negativo sulla pioggia”.

La deforestazione “incorporata” in quello che mangiamo

La possibilità di un accordo globale sembra, tuttavia, remota e, nonostante lo sdegno che si alza ogni qual volta le immagini degli incendi brasiliani tornano di attualità, nessun pressione politica è stata finora esercitata sul Brasile e sul governo Bolsonaro, che da anni sostiene la deforestazione pluviale. Ma la responsabilità di quanto sta accadendo non è tutta brasiliana. Come ha evidenziato un recente report del Wwf, l’Europa (con l’Italia in testa) è tra i principali responsabili della cosiddetta “deforestazione incoroporata”, quella cioè inclusa nel consumo che facciamo di moltissimi alimenti (soia, olio di palma e carne in primis) la cui produzione e commercializzazione comportano la distruzione di interi ecosistemi, a partire proprio dalla foresta amazzonica.

Tra il 2005 e il 2017, i Paesi dell’Unione – è stato calcolato dal Wwf – hanno causato il 16% della deforestazione associata al commercio internazionale, superando India (9%), Stati Uniti (7%) e Giappone (5%). Se si guarda ai prodotti, quelli maggiormente collegati al fenomeno sono stati soia, olio di palma e carne bovina, provenienti per lo più da Sud America e Sud-Est asiatico, seguiti dai prodotti legnosi prelevati da piantagioni come cacao e caffè. Per quanto riguarda la soia, più dell’80% di quella consumata in Europa è stata usata per l’allevamento degli animali, ricorda il rapporto sottolineando ancora una volta il nesso strettissimo tra quello che decediamo di mangiare ogni giorno e l’impatto ambientale globale (a spiegarlo, benissimo, a proposito del business della soia e degli allevamenti intensivi è il documentario “Soyalism”).

Non a caso, proprio il Wwf insieme ad altre organizzazioni, ha lanciato la campagna #Together4Forests per chiedere all’Europa di rivedere la propria politica commerciale vietando l’ingresso nell’Unione di merci collegate alla deforestazione.

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