Food Inc. La nuova, terribile, era del cibo

Alle scuole elementari, poi alle medie, sono andato più volte in gita a visitare fattorie. Ci portavano a vedere come allevavano le mucche e i maiali, a guardare i campi, a vedere gli orti, le verdure e i frutti. Oggi, dopo venti anni, diversi Stati americani stanno approvando leggi che vietano di fotografare, filmare o avvicinarsi ai luoghi in cui si produce il cibo che ogni giorno andiamo a comprare nei supermercati. Le grandi industrie del settore primario così abbandonano le pratiche che avevo visto con i miei occhi da piccolo e che si trovano su tutti i libri di testo e nell’immaginario collettivo, per diventare catene di montaggio, inaccessibili.
Food, Inc. – documentario uscito nel 2008 – ripercorre tutti gli anelli che compongono questo meccanismo partendo da un assunto: il nostro modo di mangiare e produrre cibo è cambiato più negli ultimi 50 anni che negli ultimi 10.000. In tanti diranno che questo ha portato allo sviluppo di nazioni solide, di una classe media, di alimenti a basso costo e per tutti. È vero. Ma in mezzo secolo questo sistema meccanico e senza anima ha mostrato più volte la sua pericolosità e i suoi (numerosi) fallimenti.

Qualche dato sul mais
Nei supermercati degli Stati Uniti ci sono circa 47.000 prodotti. Nel 90% di essi – escludendo quelli biologici – è presente il mais in svariate forme: sciroppo di mais e olio di mais. Il cereale è aggiunto come dolcificante all’interno delle bibite gassate, come olio in centinaia di alimenti fritti e surgelati. Non solo perché è usato anche per diminuire l’acidità dei cibi. In pratica, sostiene il film, quasi tutti i prodotti che si acquistano nelle grandi catene americane hanno, in proporzioni e forme diverse, mais al loro interno. Per non parlare della carne: cosa mangiano gli animali? Mais.
La questione degli allevamenti
L’autore del documentario Robert Kenner ricorda che negli anni ’70 cinque grandi produttori di carne occupavano il 25% del mercato
interno degli Usa. Oggi solo quattro colossi hanno in mano l’80% della produzione. Uno di questi è Tyson. Mantiene sul suo libro paga migliaia di allevatori di pollame e bestiame. Ma in cambio vuole che le proprie regole siano rispettate. Prendiamo i polli: devono vivere in capannoni senza luce, devono cibarsi solo di mangimi processati e a base di mais e, per questo, devono essere imbottiti di antibiotici per diventare giganti in metà tempo rispetto a quanto farebbero in natura. Chi si ribella è fuori. Kenner mostra la storia di un’allevatrice che decide di raccontare quello che succede. Dopo la proiezione del documentario è stata cacciata.

Cosa creano questi allevamenti? Carne a basso costo, processata, intrisa di ormoni e soprattutto prodotta da allevatori indebitati fino al collo con questi gruppi: si stima che abbiano circa 500.000 dollari di debiti, contro un guadagno netto annuo di 18.000 dollari. Questo è uno degli esempi che l’autore di Food, Inc. usa per dimostrare come l’industria alimentare sia arrivata al capolinea. Quasi tutta la carne consumata negli hamburger viene trattata con ammoniaca. Il motivo? Per evitare che le condizioni di vita e di macellazione degli animali diffondano malattie come successo più volte negli anni passati.

I semi
Di recente una puntata di Report ha mostrato come Monsanto tenesse in scacco gli agricoltori del Canada, obbligandoli a comprare nuovi semi e mandando sui terreni ispettori in grado di capire (e far causa) se le varietà coltivate provenissero da semi registrati dalla multinazionale. Sei anni prima Food, Inc. ha messo in luce come questa pratica fosse già diffusa negli Stati Uniti. E come oggi le cose siano solo peggiorate e si stiano diffondendo su scala globale.

Le speranze
Il documentario – candidato all’Oscar nel 2010 – lascia tuttavia uno spiraglio. Racconta la storia di un allevatore che permette ai suoi capi di brucare erba, di vivere all’aperto e uccide (perché il film non attacca in alcun modo gli onnivori)  i propri animali con metodi tradizionali. Propone anche una soluzione: acquistare da prodotti a km zero e biologici. Di certo – continua Kenner – per farlo bisogna investire molti più soldi. Cosa che in pochi sono disposti a fare. “Un hamburger costa come un broccolo, ma riempie di più e non lo devi neppure cucinare”, dice una madre di famiglia. Per questo preferiamo l’hamburger. Ora che il marito ha il diabete e una delle due figlie è a rischio vorrebbe cambiare vita. Ma le serve più denaro. Un problema da non sottovalutare di questi tempi.

Angelo Paura

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