“Less is more”: perché ammiriamo chi è in grado di lasciare tutto?

In questo saggio troviamo una riflessione non banale sul possesso e la capacità di lasciar andare ciò che non ci rende noi stessi: siamo davvero capaci di “lasciar andare”?

“No… no questo tipo no, non è capace. Questo vuole prendere tutto, arraffare tutto, non sa rinunciare a niente; cambia strada ogni giorno perché ha paura di perdere quella giusta, e sta morendo, come dissanguato”. Guido Anselmi, protagonista del film di Federico Fellini 8 1⁄2 vive la sua crisi artistica e personale, una crisi che gira anche intorno al tema che, prima o poi, incrocia la strada di tutti noi: “Tu, saresti capace di lasciare tutto?”. Le cose, le proprietà, i legami, “la roba”, come la definiva Giovanni Verga, sono al centro della riflessione del libro Less is more dello scrittore Salvatore La Porta pubblicato da Il Saggiatore. Non si tratta di un libro guida, di un manuale pratico per cercare di comprare meno, è invece un percorso che risponde a quel friccicore di ammirazione che abbiamo per chi è in grado di seguire la propria strada, per chi parte per un viaggio intorno al mondo senza biglietto di ritorno, per chi vende tutto e cambia vita, per chi non ha nulla eppure – lo percepiamo con chiarezza – non manca di quella felicità alla quale noi aneliamo senza mai trovarla davvero. 

Possiedo, sono  

Icona del percorso di La Porta è Huckleberry Finn, il ragazzo picaresco creato da Mark Twain, autore a sua volta simbolo di chi non ha mai ceduto all’idea che la vita dovesse per forza essere seria, allontanando da sé, poiché adulto, il gioco e il cambiamento costante come forma di “pazzia”. Non avere niente significa poter cambiare, ma per La Porta non si tratta di non avere niente nei termini della povertà assoluta (che per assurdo non è condizione sufficiente) bensì della capacità di non credere che l’accumulo, la creazione di un castello di oggetti e relazioni possa determinare in modo sicuro la nostra felicità. “Sotto l’edificio dei nostri averi – scrive – ci siamo noi con la nostra voglia di cambiamento”. L’essere umano non è stabilità bensì mutevolezza: Walt Whitman scriveva: “Mi contraddico? Va bene, e allora mi contraddico (sono vasto, contengo moltitudini)”. 

Per spiegarlo ecco in La Porta la strategia del vuoto e del pieno che arriva dalla tradizione dell’arte marziale del judo: “La perdita della propria posizione, nel judo, non è la fine del combattimento bensì una nuova opportunità dalla quale attaccare”.  Ma perché desideriamo possedere cose, posizioni lavorative, mutui, rate, macchine costose, vestiti alla moda, marche? Perché, secondo La Porta, questo determina la nostra identità: noi siamo le cose che possediamo, ma qui sta il problema, perché, in verità, non è affatto così e lo scopriamo nella vecchiaia, quando gli oggetti, a volte dimenticati, non hanno più nessun valore, ma quello che conta è la capacità di stare con sé stessi. 

Il messaggio di Kafka

Noi, spiega La Porta, siamo ben altro. Quando lo scopriamo? Quando arriva – e arriva per tutti – quella notte che ricorda il racconto di Franz Kafka, La metamorfosi, in cui quel guscio di ruoli, di cose “fatte come si devono fare” diventa improvvisamente una corazza che ci ripugna, un esoscheletro nel quale non ci riconosciamo più e davanti al quale anche gli altri provano orrore.  Paul Gauguin scrive alla moglie: “Vado a Panama per vivere da selvaggio […] porto colori e pennelli e mi ritemprerò lontano da tutti”. Non una fuga ma un ritrovarsi, non una mancanza di attenzione bensì un comprendere la differenza – spiegata dal filosofo Martin Heidegger – fra “prendersi cura” e “pro-curare”. Non si scappa ma si risponde all’ingiustizia che sentiamo naturale dentro di noi del non poter essere ogni cosa ma solo una piccola porzione di un ritratto su una tela che non riusciamo a strappare. 

Che fare, dunque?

L’essere umano è portato ad accumulare beni e, insieme, sente la necessità di liberarsene, ammirando con ardore e un pizzico di risentimento chi della propria vita decide senza costrizioni di nessuna sorta, liberandosi da un senso di colpa che siamo noi stessi ad alimentare. Vivere da eremiti? Non è questa la proposta di La Porta che semplicemente arriva a concludere che l’azione di liberazione di noi stessi va intrapresa nel momento esatto in cui ci rendiamo conto che “la schiavitù del possesso intacca troppo a fondo la nostra identità”. Ma prima di arrivarci, bisogna pur rifletterci sopra. Come spiega benissimo anche il filosofo e psichiatra Umberto Galimberti nel suo Il mito della crescita, è necessario valutare se i fini di quella che conosciamo come economia – sorta di potere trascendente che non è più sotto la guida della politica ma guida le decisioni della cosa pubblica – siano o meno anche i nostri e se il lavoro per guadagnare, spesso forsennato e senza giusta misura, non sia un rimedio all’angoscia che abbiamo verso noi stessi, non riconoscendoci più.

Beni, posizioni e soldi che non devono allontanarci dalla nostra umanità avvicinandosi alla vigliaccheria, non devono metterci nelle condizioni di girare la testa dall’altra parte quando qualcuno ha bisogno di noi – quando noi stessi abbiamo bisogno di noi – quando un’ingiustizia si sta consumando davanti ai nostri occhi per la sola paura di perdere qualcosa, di intaccare il nostro guscio. Quello di La Porta, quindi, è un inno alla coerenza con noi stessi e con il nostro senso della giustizia, della morale, dell’etica e del desiderio di essere felici: “L’arte di non avere niente è la capacità di creare una coerenza fra le proprie azioni e quello che si ritiene giusto”.

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