“Perché i vegani hanno perso”. L’editoriale di Henry Mance su Financial Times

Il giornalista è vegano da anni e il suo libro “Amare gli animali” edito da Blackie Edizioni è un manifesto intelligente alla cultura animalista e antispecista.

Verso la fine di Agosto, il giornalista Henry Mance, caporedattore del Financial Times, ha scritto un editoriale (“Why the vegan losts”, dietro paywall) sulla situazione del veganismo. I toni sono quelli di un’analisi giornalistica e sociale di quello che sta accadendo al movimento ma soprattutto del suo mancato risultato: in pochi al mondo hanno cambiato idea su come sarebbe bene mangiare.

Il risultato è un ritratto molto chiaro dell’enorme difficoltà che la scelta di non mangiare cibi provenienti dallo sfruttamento animale sta incontrando non solo in Europa ma in generale nel mondo. I dati sono chiari e rispecchiano anche quelli italiani. Solo una persona su dieci nel mondo si definisce vegetariana o vegana, e questo succede da molti anni.

Secondo l’analisi del giornalista inglese, autore di uno dei saggi sul tema antispecista più originali e ben scritti pubblicati in Italia (“Amare gli animali” Blakie Edizoni), ci sono vari fattori che hanno portato il veganesimo nella situazione di stallo e parziale declino attuale. Il primo è la difficoltà delle persone a cambiare le proprie abitudini alimentari iniziando a consumare prodotti sostitutivi che non incontrano davvero il loro gusto. Le alternative vegane non sono soddisfacenti e il loro prezzo non invoglia il consumatore.

Il secondo punto è legato ad una rinnovata attenzione – riaccesa anche dalla lobby della carne – sulla questione degli “alimenti altamente processati” che sono finiti sul banco degli imputati accusati di essere uno dei principali motivi di una cattiva alimentazione (e quindi di una cattiva salute). La narrazione, spiega sempre Mance, si è spostata sull’idea che moltissimi cibi vegetali alternativi alla carne e al formaggio rientrassero proprio nella categoria degli ultra processati, facendo desistere molti di coloro che avevano iniziato un percorso di avvicinamento al vegan soprattutto per questioni legate al miglioramento della propria salute. In realtà molti prodotti proteici vegani non sono affatto ultra processati (non lo sono il tofu, il tempeh, il seitan, le bevande vegetali), perché se così fosse in questa categoria dovrebbero rientrare anche pasta, pane e prodotti che sono inevitabilmente “lavorati”. Insomma: fra una fetta di salame e il tofu, l’ultra processato è il primo, non il secondo. Inoltre, le ricerche scientifiche sul tema, hanno mostrato che fra un ultra processato vegano e uno “normale” in termini di impatto sulla salute, vince comunque quello vegano. Si tratta di un tema che è stato recentemente affrontato anche dalla Società Scientifica Vegetariana in un articolo.

Terzo problema, quello delle definizioni, ossia la guerra senza quartiere messa in atto dalla politica sulle “diciture” del prodotti vegetali. Si tratta di una questione chiaramente di marketing e, soprattutto, sociale: attaccare un prodotto vegetale perché “ingannerebbe” il consumatore non è certamente una buona pubblicità per una cotoletta a base di proteine dei piselli.

Quarto problema – soprattutto nel mondo anglosassone e americano – il grande riscontro di pubblico per influencer e “attivisti” della forma fisica che promuovono l’alimentazione iper proteica: sarebbero fondamentali carne (a volte anche cruda) e uova per poter davvero stare in forma. Nonostante la comunità scientifica non abbia più nessun dubbio sull’equivalenza delle proteine vegetali con quelle animali (rispetto al fabbisogno che ne ha il nostro organismo), ecco che i cultori della bistecca con i loro corpi da copertina hanno segnato un ulteriore punto “a favore” per l’alimentazione onnivora (anzi, carnivora).

Infine, e questo è il punto più interessante, Mance, parla della mancanza di idealismo e speranza che ha investito una buona parte della cittadinanza a causa di ondate di problemi mondiali sempre più gravi. “Non molto tempo fa, i liberali in particolare erano disposti a fare sacrifici nella speranza di una società migliore. Di fronte a una situazione estremamente difficile – Covid, Ucraina, costi energetici elevati, rielezione di Donald Trump, Gaza – hanno perso la fiducia. È comprensibile che si chiedano se i piccoli cambiamenti abbiano importanza; vogliono rifugiarsi in ciò che porta loro gioia immediata: carne, formaggio, vacanze lunghe”.

La politica, quindi, intesa nella sua accezione greca e pulita del termine, ha fallito su tutti i fronti rispetto al tema dell’alimentazione sostenibile, creando una grande sensazione di smarrimento e disillusione che ha colpito gravemente il movimento vegan.

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