Vegolosi

Massimo Filippi: il capitalismo sta uccidendo il veganesimo

“Uno spettro si aggira sul continente Uomo, quello spettro è la liberazione animale”. Lo scontro fra capitale e idee, fra lotta politica verso la liberazione animale e consumi, fra abitudine e rivoluzione, è al centro del nuovo libro di Massimo Filippi, professore di Neurologia e filosofo antispecista. Il volume si intitola  “Questione di specie” ed è edito da Elèuthera.

Secondo Filippi c’è un rischio sotterraneo e difficile da individuare che sta minando le convinzioni e gli sforzi della cultura vegana nel nostro paese e non solo. Il capitalismo, inteso come sistema economico e politico che mette al centro la produzione di merci e il loro acquisto è talmente potente da garantire uno spazio anche a tutto ciò che è leggermente “sovversivo”, come la voce antispecista, fino a quando, chiaro, questa non supera una sorta di limite di sicurezza. In questo modo, secondo Filippi, la scelta vegana e animalista, nella maggior parte dei casi, sta diventando essa stessa capitalismo: si soddisfano bisogni primari, come il cibo, o quelli secondari come ristoranti vegani, vestiti adatti, ma questo porta solamente ad una normalizzazione della spinta di protesta che porterebbe, se condotta in modo reale, ad un vero ribaltamento del sistema, quello dello smembramento dei corpi animali, quello che ci ha portato a rimuoverli dal nostro orizzonte di percezione, già a partire dal Neolitico.

L’addomesticamento, l’allevamento, la nascita del concetto di “specie” ci ha allontanati completamente dall’animalità, ponendoci su un piano totalmente diverso. Gli animali, nel sistema capitalistico, sono stati resi “cose” anche a livello legislativo. Sugli animali è in corso da sempre quella che Filippi chiama un'”inflazione svalutativa” basata sulla moltiplicazione dei corpi, resi quindi meno di valore in quanto presenti in decine di migliaia e un nascondimento: nessuno sa (sapeva) che cosa succede nei mattatoi.

Eppure contro l’ideologia del dominio sugli animali, l’animalismo, la scelta vegan, l’antispecismo, rappresentano una resistenza attiva, un antagonismo rivoluzionario che, però, deve stare molto attento a non perdere la bussola e non farsi inglobare, a non diventare moda, nicchia tranquilla, “normalizzata”.
Ma che cosa dovrebbe fare questo movimento, quindi, che secondo l’autore è ancora giovane, troppo giovane, per avere una struttura che non sia frammentaria? Tenere alta la conflittualità politica, scendere in piazza, insistere sul creare pressione sociale vera e, inoltre, lavorare sul linguaggio, primo vero baluardo del movimento e della comunicazione sul tema: iniziamo a chiamare gli animali, “altri animali” e non più “animali non umani” per esempio. Uscire dall’antropocentrismo, nuova religione e oppio, parte anche da qui.

Se è vero che la parte di critica di Filippi in questo volume è chiarissima, la parte propositiva è ancora troppo limitata e mette sul tavolo un dubbio: se il movimento antispecista, vegano, è ancora frammentato, giovane, come può essere reale e forte la pressione sociale che porta al cambiamento? Forse, quindi, il vero obiettivo primario è cercare una coesione in questo movimento, una sorta di cappello che comprenda davvero in modo ampio animalisti, vegani, antispecisti, fautori della decrescita, ambientalisti, ecologisti. Ma qui, forse, siamo nell’utopia e nel frattempo il sistema continua a macinare e in mezzo, a quanto pare, ci siamo anche noi. La domanda è: siamo già stati digeriti?