Vegolosi

Olio di palma: l’insostenibile forma del gusto

Il servizio di Sabrina Giannini di Report “Che mondo sarebbe senza…” dedicato all’olio di palma ha spalancato sul grande pubblico le porte alla corrente della consapevolezza del consumatore, porta che una volta aperta, non si chiude. Sotto esame, ancora una volta, l’ “oro rosso” che solamente da 5 mesi, grazie ad una direttiva europea, vediamo segnalato nelle etichette dei prodotti (anche se le aziende non sono obbligate a dire quanto ne usano). Non si tratta di essere vegetariani o vegani, non si tratta di essere salutisti fissati col benessere che “beh ma ogni tanto uno sgarro ci può stare”, non si tratta degli ecologisti, né degli animalisti pronti a tutto per difendere oranghi, tigri e altre 80 specie in via di estinzione fra Indonesia e Malesia: qui si tratta di tutti quanti noi.

Oro rosso sangue
Succede che l’olio di palma e l’olio di palmisto (un suo sotto prodotto) si ottengono dai frutti della pianta della palma da olio la cui coltivazione è stata introdotta in Indonesia e in Malesia a metà dell’Ottocento da uno scozzese e da un inglese, rispettivamente William Sime e Henry Darby: colonialismo, soldi facili, sfruttamento delle risorse e dei lavoratori. Niente di nuovo. Succede, però, che questo olio, questo grasso vegetale (come veniva indicato in etichetta prima che la comunità europea obbligasse a citarlo) è diventato la componente magica, la chiave di volta, di una quantità incalcolabile di prodotti (più del 50% della produzione industriale): da quelli ad uso alimentare, ai di prodotti di bellezza arrivando al carburante. Che male c’è? Non ce ne è solo uno: il primo è che per poter piantare questi alberelli di palma da olio bisogna fargli spazio tagliando le foreste: ogni ora ne sparisce l’equivalente di 300 campi di calcio. Dopo aver tagliato, il legno va a chi produce mobili, pavimenti e carta, e sui terreni, invece, bisogna bruciare e le emissioni di anidride carbonica sono intollerabili e vanno a gravare su un eco sistema già fortemente alterato. Da cosa? Dall’estinzione della fauna che segue, come è ovvio, quella della flora. Gli oranghi sono il simbolo di questo disastro ecologico: le immagini di questi animali abbarbicati agli ultimi rami integri delle foreste date alle fiamme, hanno fatto il giro del mondo.
Ma se non vogliamo fare sempre la parte degli animalisti (cosa che ci piace perché sana e meritevole perché anche noi siamo animali, anche se lo abbiamo dimenticato) allora parliamo di sfruttamento del lavoro e povertà: lavorereste per 5 euro al giorno? Chi pianta gli alberelli di palma in Indonesia o in Malesia lo fa. Chi fornisce alberelli e pesticidi a questi neo-agricoltori dell’oro rosso? Le aziende che poi vendono l’olio alle multinazionali. E i pesticidi? Nel documentario di Report alla domanda “Ma la mascherina quando metti questa roba, te la metti?” la risposta dell’agricoltore è ovvia: “No”.

Olio di palma sostenibile: la RSPO
Possibile che non ci sia un modo per produrre quest’olio senza distruggere? Un modo c’è ed è quello di controllare e verificare le piantagioni, evitare che tutto si trasformi, come è ora, nel far west (un agricoltore risponde alla cronista di Rai 3 “La terra? Me la sono presa dalla foresta, senza permesso”). Ecco che nel 2004 nasce un’organizzazione agricola, la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil) con l’obiettivo di promuovere l’uso di prodotti di olio di palma da coltivazioni sostenibili. Purtroppo i dubbi su questo tipo di organizzazione sono molti: chi paga i certificatori? Da quanto emerso dall’inchiesta di Rai 3 sono le stesse aziende che devono essere controllate a pagare i controllori e ad affermarlo è lo stesso direttore della RSPO. Inoltre la RSPO, di cui fanno parte anche aziende come Nestlé, Unilever o Henkel, non si pone l’obiettivo, di preservare la foresta e “non esclude il taglio delle foreste per implementare nuove piantagioni di palma. Protegge solo aree protette di alto valore di conservazione” come spiega Rettet den Regenwald (Salviamo la Foresta) fondata nel 1986 ad Amburgo.

L’olio di palma ci fa male?
Poniamo ora il caso che non ci interessi nulla né della foresta, né degli oranghi né, tanto meno, dello stato del riscaldamento globale: “Cosa succede se mangio prodotti con olio di palma? Mi fa male?”. La risposta è “ni”. L’olio di palma in sé non comporta danni diretti, non è tossico. Il problema principale sta nella quantità che ne viene consumata attraverso i prodotti industriali: torte, biscotti, cracker, cereali per la colazione, latte per bambini, questo grasso saturo, è stato indicato dalla American Heart Association come grasso da ridurre fortemente e il CSPI (Center for Science in the Public Interest) afferma che l’olio di palma aumenta i fattori di rischio cardiovascolare. Il problema è, quindi, la quantità di un ingrediente che, fino a 5 mesi fa, si nascondeva dietro la dicitura “grasso vegetale” e faceva sembrare meno “insano” il consumare grandi quantità di prodotti raffinati, fra i quali, per esempio, la margarina.

Siamo noi a decidere
Ci sono grandi aziende che stanno lavorando, grazie alla pressione della richiesta del pubblico, sull’eliminazione dell’olio di palma dalla loro produzione, alcuni stanno cavalcando l’onda di consapevolezza scrivendo sulle confezioni dei loro prodotti “Senza olio di palma”, altre si appoggiano alla certificazione RSPO. Ancora una volta la vera politica la fa il consumatore con il suo potere di acquisto o meglio, di non acquisto.

La domanda, quindi è: che mondo sarebbe senza foreste, senza oranghi e senza bio diversità? Forse poteva essere al centro di una tavola rotonda di Expo, perché una cosa è certa, l’olio di palma e le aziende che lo usano, non nutrono il pianeta, anzi.

Federica Giordani