Vegolosi

Stefano Belacchi, fotografo e attivista: “Ho perso empatia, ma la denuncia è più importante”

Entrare negli allevamenti intensivi e ritrarre gli animali per creare “un senso di urgenza” e spingere all’azione. Il reportage animalista come la fotografia di guerra, a togliere il velo su ciò che altrimenti non si vedrebbe, o non si vorrebbe vedere. Stefano Belacchi è uno dei due fotografi attivisti italiani che ha partecipato alla realizzazione di “Hidden. Animals in in the Anthropocene”, il progetto fotografico ideato da Jo-Anne McArthur che, con gli scatti di 30 fotografi internazionali, racconta le diverse facce dell’industria che ruota intorno al mondo degli animali.

In questa intervista Belacchi ci racconta cosa significa essere un fotografo attivista e perché il reportage animalista, ancora oggi dopo aver visto quasi tutto della sofferenza animale, è ancora così importante.

Nel parlare del libro “Hidden” Jo-Anne McArthur ha paragonato quelle foto alle fotografie di guerra. Ti ritrovi in questo parallelismo?

Mi ci ritrovo molto perché probabilmente, di tutti i mondi della fotografia, quello della fotografia di guerra è quello che più si avvicina al reportage animalista. Non sono paragonabili per il rischio che il fotografo corre, però l’effetto e l’utilizzo sono molto simili nell’ottica di rendere noto qualcosa che altrimenti rimarrebbe nascosto. E questo è quello che fa anche il reportage animalista.

Una degli scatti di Belacchi

Come è nato per te questo lavoro e come si svolge praticamente?

Non mi piace definirlo un “lavoro”, ma attivismo, l’ho sempre fatto solo per impegno personale. Ho iniziato come attivista molti anni fa, già al liceo, e per tanti anni con le associazioni animaliste abbiamo fatto campagne di mobilitazione. Negli ultimi dieci anni, però, anche quella delle associazioni è diventata un’attività sempre più intensiva di documentazione del sistema degli allevamenti intensivi. Abbiamo capito che questa è la direzione più “efficace”. E se certamente non si può parlare di efficacia dal punto di vista della riduzione dei numeri dell’industria zootecnica, sicuramente lo è in un’ottica di visibilità, delle quali le associazioni animaliste hanno bisogno perché poi la loro azione possa portare risultati sul piano strettamente politico.

Che sguardo adotti quando fotografi gli animali?

Quella dello stile è per me una questione di primaria importanza. La documentazione di quello che accade in certi ambienti nasce con l’animalismo moderno. Già negli anni Settanta, quando si entrava nei laboratori di vivisezione, si fotografava e si riprendeva tutto. Da questo punto di vista, non abbiamo inventato nulla. In tutti questi anni abbiamo raggiunto un livello di documentazione totale rispetto all’industria degli animali. Per questo, l’unico modo che abbiamo perché questa attività continui a tenere alta l’attenzione è “estetizzare” il prodotto fotografico con scatti che non siano solo di documentazione, ma di reportage, anche in un’ottica di pubblicazione e quindi di resa pubblica delle foto stesse. Io, personalmente, cerco lo stile fotografico concentrandomi sulla ritrattistica, che è una forma di fotografia molto legata al singolo individuo e alla rappresentazione di quel, poco, di vita che di quell’individuo è possibile ritrarre. Dopo anni, credo di aver trovato il mio stile. Le ombre svolgono un ruolo fondamentale nelle mie foto. Sono stato sicuramente influenzato dai grandi maestri della pittura e della fotografia, specialmente Caravaggio, che è riuscito, come nessun altro, a dare dignità agli emarginati della società facendoli emergere dalle ombre dove erano stati esiliati.

Un altro scatto del fotografo Stefano Belacchi

Esiste una responsabilità politica nel tuo gesto fotografico?

La fotografia deve dare la spinta all’azione: la fotografia animalista, più ancora che quella di guerra, deve creare un senso di urgenza per il destino, se non di quei singoli animali fotografati, che quando si vedranno le foto saranno già stati uccisi, di tutti gli animali che si trovano nelle stesse condizioni. Quella situazione che viene fotografata si ripete all’infinito, considerato quello che è il carattere sistematico della zootecnia. Il mio obiettivo è far capire che quella situazione che si sta verificando è destinata a ripetersi all’infinito.

Stefano Belacchi in una delle foto per Hidden. “Dobbiamo sempre ricordare che quegli animali che fotografiamo, quando le foto saranno pubbliche, saranno già morti. Sento una grande responsabilità quando ci penso”.

Esiste il rischio che le persone si abituino alle immagini di dolore e tortura degli animai? Non è un rischio da poco…

Non solo il rischio c’è, ma sta già succedendo. Per questo motivo, più questo lavoro viene fatto con professionalità e dedizione più realizzeremo delle immagini iconiche che rimarranno poi nella memoria collettiva, così come è stato per alcuni degli scatti più famosi della storia. E questo è anche il senso di “Hidden”. Non siamo ancora a quel punto, ma il reportage animalista è sulla buona strada affinché, magari tra 10 anni, tante persone abbiano bene nella mente che cos’è la zootecnia.

Foto di Stefano Belacchi

Provi un senso di impotenza mentre scatti e documenti le condizioni degli animali?

È una consapevolezza che viene dopo. Mentre sto scattando prevale, oltre a un senso di grande sofferenza per quello che vedo, una sensazione personale di forte disagio posta dallo spazio di per sé: la sensazione di voler uscire da lì il prima possibile. Poi, invece, quando rivedo le foto il senso di impotenza diventa assolutamente protagonista. Ci si dice sempre che quell’animale si vorrebbe salvarlo. Anche perché quell’animale vuole essere salvato, non ritratto. E questo è il grande paradosso dell’animalismo. Personalmente, negli anni mi sono creato questa specie di “autogiustificazione”: non siamo colpevoli solamente noi fotografi o attivisti nel momento in cui fotografiamo gli animali e non li salviamo. Tutti siamo ugualmente responsabili di lasciare gli animali lì, in qualsiasi momento.

Dopo anni di investigazioni negli allevamenti intensivi, cosa è rimasto addosso all’uomo, prima ancora che al fotografo Stefano Belacchi?

La cosa che più mi dispiace è di aver in qualche modo “abbassato” il livello di empatia. Certamente, è stato “utile” perché se ci si lascia travolgere dalle emozioni poi non si riesce a fare quello per cui si è lì. Schermare, in qualche modo, l’impatto emotivo è necessario, ma è una grande perdita a livello personale.