Vegolosi

Prodotti vegetali e nomi che richiamano la carne: cosa succede in Italia?

“L’obiettivo”, si legge nella proposta presentata dai senatori Gian Marco Centinaio e Giorgio Maria Bergesio (Lega) è quello “di tutelare le produzioni zootecniche del nostro Paese da coloro che vogliono offrire alternative di consumo, sfruttando i nomi normalmente riferiti a carne e prodotti a base di carne con la propria notorietà”.

Nel nostro paese, mentre si cerca a tutti i costi di fermare la possibilità di studiare e produrre carne coltivata in laboratorio, si da un colpo al cerchio e uno alla botte, cercando anche di impedire ai consumatori di “confrondersi” sul valore nutrizionale di un burger di tofu contro uno di manzo. È stato approvato dal Senato (ma attende il necessario passaggio in Parlamento) un emendamento che, se legiferato, vieterebbe a chi produce e commercializza prodotti completamente vegetali di usare denominazioni come “mortadella veg” oppure, “hamburger vegetale”.

Il tema del così detto “meat sounding” non è chiaramente nuovo: sono anni che in Europa se ne discute, ma grazie all’attuale governo, sembra che l’Italia voglia fare passi da gigante per “tutelare il patrimonio zootecnico nazionale, riconoscendo il suo valore culturale, socio-economico e ambientale, nonché un adeguato sostegno alla sua valorizzazione, considerando anche la tutela della salute umana, degli interessi dei consumatori e del loro diritto all’informazione” come si legge nel testo della proposta.

Sempre nel testo leggiamo: “I prodotti ottenuti mediante la lavorazione di vegetali che vengono macinati, mischiati, arricchiti con aromi e addensanti non presentano inoltre le stesse caratteristiche nutrizionali dei veri prodotti della zootecnia. L’obiettivo è, dunque, quello di ripristinare le corrette condizioni di mercato tra tutti gli operatori del settore alimentare: e quindi la necessità di indicare prodotti completamente diversi con denominazioni differenti”. Eppure questa definizione si applicherebbe benissimo anche alla carne processata, ossia a tutti i salumi che troviamo in commercio, alcuni dei quali, come la bresaola della Valtellina IGP viene (seguendo le norme di legge) lavorata in Italia ma realizzata con carni di zebù provenienti dal Brasile.

Secondo l’emendamento le aziende “colpevoli” di immettere sul mercato prodotti vegetali denominati “erroneamente” incapperebbero in sanzioni che vanno da 500 a 7.500 euro.

Entusiaste le reazioni dei produttori di carne, fra i quali il presidente di Assocarni, Serafino Cremonini, che ha dichiarato: “Si tratta di un passo decisivo per la tutela dell’intero comparto zootecnico in quanto la commercializzazione di prodotti a base vegetale, che utilizzano denominazioni usuali e descrittive riferite alla carne, può chiaramente indurre i consumatori italiani a pensare, erroneamente, che queste imitazioni siano sostituti uguali alla carne. La questione – non è impedire il consumo dei surrogati vegetali della carne, ma semplicemente chiamare i prodotti con il loro nome. È evidente che questi prodotti non hanno affatto lo stesso valore nutrizionale rispetto alla carne naturale”.

Al momento la questione dei tabù sulle denominazioni vegetali è già cosa fatta invece per il comparto lattiero caseario grazie al pronunciamento della Corte Europea del 2020 che di fatto ha normato e impedito l’uso di nomi che richiamino latte e formaggi per prodotti 100% vegetali in commercio.

Una riflessione sul tema l’avevamo già pubblicata qualche settimana fa, ve la riproponiamo qui: “Ci frega davvero de nomi dei prodotti vegan?