Vegolosi

Andrea Staid: “Ripensiamo la casa in chiave green. Le migliori? Quelle del Sud Est asiatico”

di Benedetta Rutigliano

Siamo così immersi nella cultura della casa come prodotto, come merce da acquistare, visionabile anche da app dedicate, che neanche più ci accorgiamo di quanto questo spazio, che certamente per ciascuno ha significati e valori profondi, possa essere re-immaginato e acquisire valori aggiunti, radicandoci maggiormente al territorio e alla comunità, permettendoci di vivere, non solo di abitare (nel senso ristretto di mangiare e dormire in un luogo), in maniera più sostenibile per la vita, umana e non.

A stimolare le nostre riflessioni è l’antropologo Andrea Staid (1982, Milano), docente di Antropologia culturale e visuale presso la NABA (Nuova accademia di belle arti) di Milano, che nel libro La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire (add editore, 2021) ci conduce indietro nel tempo, in età pre-industriale, per ricordare come allora l’uomo fosse artefice della propria casa, costruita con materiali e tecniche in armonia col territorio; lontano nello spazio, in un viaggio tra le case più ecosostenibili nei secoli, quelle vernacolari di Laos, Cambogia, Vietnam, Russia, ma anche i trulli pugliesi o le più recenti earthship dell’architetto Michael Reynods in New Mexico. Fino a portarci dentro la casa in pietra dove si è trasferito, sulle alture liguri, abbandonando i comfort urbani e adottando pratiche di autocostruzione per il suo studio. Perché “abitare uno spazio, nell’accezione antropologica del termine, significa potervi investire desideri, sogni o ricordi, per farne un luogo identificabile e nel quale riconoscersi“, si legge nel suo libro, in linea con l’idea del filosofo tedesco Heidegger secondo cui “nell’abitare risiede l’essere dell’uomo”. E ancora prosegue Staid: “I luoghi che abitiamo costruiscono, in relazione al paesaggio che li circonda, significati simbolici e affettivi che si riflettono sul rapporto esistente tra paesaggio, salute e qualità della vita“, innescando quindi un circolo virtuoso sempre più necessario in un mondo sull’orlo del collasso.

Cosa l’ha spinta a esplorare modi di abitare così diversi da quelli a cui siamo abituati nella cultura occidentale?

Mi sono occupato di case perché mi sono accorto di come il concetto di casa sia legato all’etica e alla politica sociale. Trovandomi in una yurta in Mongolia o tra gli indigeni del Vietnam, mi sono reso conto che la casa per loro è uno spazio illimitato e legato al territorio: non si parla solo della casa materica dove tornare a mangiare e dormire, la loro casa è intrisa di simboli e strettamente connessa alla comunità. Ho voluto scoprire come vivono le persone che ancora non si sono tuffate nel mondo della casa-merce e capire quando la casa è diventata tale, facendo un confronto con il modo in cui abbiamo vissuto nel periodo preindustriale. È solo negli ultimi tre-quattro secoli, infatti, che la casa si è isolata da comunità e territorio, trasformandosi, fra l’altro, in qualcosa di altamente criticabile dal punto di vista ecologico e sociale.

Dall’era post-industriale viviamo in modo stanziale, in contesti mononucleari, cercando spesso “la casa della vita”.Un prodotto bello e finito, di cui non conosciamo materiali né metodi di costruzione. Questo approccio ci sta impoverendo?

Sì, specialmente sotto due aspetti: innanzitutto in questa evoluzione della nostra specie, che poi è un’involuzione, non siamo più artigiani in grado di “fare” con le nostre mani. Come dice l’antropologo Stefano Boni ci siamo trasformati nell’homo comfort, delegando alla società dei consumi qualsiasi cosa. Questa scissione col reale è avvenuta nell’ultimo secolo, ed è fortemente collegata alla questione dell’abitare: la casa, infatti, è una ragnatela di significati culturali radicati alla città o alla campagna che la circondano, il contesto in cui è inserita dovrebbe essere curato da tutti. Così come accadeva in passato, dove sentieri, muri a secco, spazi pubblici erano costruiti grazie ai diversi saperi, alle abitudini e al contributo di ciascuno: è sempre più necessario rifondare un bene condiviso e autocostruito. In secondo luogo, non dobbiamo dimenticarci che la casa-merce crea separazione di classe, poiché non tutti possono permettersela, e il numero di senzatetto aumenta sempre più. Per chi vive la casa come un concetto comunitario, e non come proprietà privata, le foto delle nostre città con le persone che dormono nei cartoni, sotto i palazzi abitati, sono qualcosa di inconcepibile.

Crede davvero sia possibile immaginare di tornare a un stile dell’abitare diverso?

Come insegna lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, l’utopia deve essere il faro che illumina il nostro cammino. Quelle legate all’abitare sono utopie concrete, non postulati teorici e politici, ma reali possibilità: le uniche che abbiamo, perché stiamo andando verso la sesta estinzione di massa. Ora come mai è necessario creare le nostre utopie possibili che ci portano
a risoggettivizzare tutto il vivente, allontanandoci dall’antropocentrismo che ci ha condotti a un punto di non ritorno, come approfondisco anche nel saggio Essere natura (Utet, 2022).

Una casa costruita con criteri green è più costosa?

Le case realmente green sono le più economiche che possano esistere. Quando ho cominciato con la dieta vegetale, coltivando legu- mi e verdure, ho capito quanto fosse anche più economica, oltre che più sostenibile e salutare. Lo stesso vale per le case: quelle veramente green non necessitano di tecnologie costose e pannelli solari. Bisogna mettere in relazione la casa al territorio, studiare la giusta esposizione, posizionare le finestre al sole, scegliere materiali eco-compatibili che diano la giusta coibentazione, con una condivisione di saperi pratici e intellettuali che avviene tramite i cantieri scuola, i cantieri sociali, la cooperazione comunitaria.

Qual è la casa più vicina a quella del futuro, tra quelle che ha visto in giro per il mondo?

Sono moltissime e diverse quelle che mi hanno colpito girando il Sud Est asiatico, inteso come Nord della Thailandia, del Laos, del Vietnam e della Cina: qui ho trovato geniale una cosa semplice, ma per noi non scontata, come l’utilizzo delle risorse disponibili nel modo migliore possibile. Per esempio, la raccolta dell’acqua piovana da utilizzare per gli scarichi,
la scelta di materiali non impattanti, le strategie per non disperdere energia. Un’altra differenza culturale che ho apprezzato in quelle aree è la predilezione per case con interni piccoli e spazi esterni notevoli: siamo nati per vivere all’aria aperta, nella natura, solo negli ultimi secoli ci siamo abituati a stare in palestre, uffici, locali, e cercare case sempre più grandi, ma isolate dal contesto.

Possiamo rendere più sostenibile e comunitaria la nostra casa di città?

Le città, e le case di città, possono essere ripensate, ricostruite, “risignificate” dal punto di vista materico, con attenzioni come il recupero delle acque piovane per gli scarichi delle acque grigie, che permetterebbero di non sprecare acqua potabile per i rifiuti organici. Anche le ristrutturazioni dovrebbero essere realizzate con materiali naturali, molto più coibentanti e durevoli nei secoli. Intorno alle case, come prevede l’ecologia sociale, bisognerebbe immaginare più spazi comuni, aree per il coworking, per gli oggetti che possono servire una tantum (Biblioteca degli oggetti), orti urbani, banche del tempo, biciclette da condividere, giusto per fare degli esempi.

Gli architetti dovrebbero parlare di più con gli antropologi?

Certamente sì, ma posso dire che la maggior parte dei miei lettori sono architetti che oggi stanno ripensando a come usare i materiali e progettare lo spazio. Io per primo sto elaborando numerosi progetti con loro, e questo non deve risultare strano, poiché l’antropologia si basa sulla pratica etnografica proprio per produrre delle teorie.

E i politici possono cambiare il nostro modo di abitare?

La politica è importante perché può emanare regole e leggi che possono facilitare le problematiche legate alle questioni abitative. I politici dovrebbero certamente pensare di più al bene della città, della comunità, piuttosto che alle loro carriere.

Cosa consiglierebbe a un principiante che volesse autocostruire la propria casa?

Innanzitutto, non ci si può improvvisare nella costruzione di una casa: bisogna imparare a fare inserendosi in comunità di costruttori, frequentando cantieri scuola, cantieri sociali, luoghi di apprendimento e scambio di saperi. Molto utile è recarsi nei cantieri delle case dei terremotati, per capire come muoversi dal punto di vista pratico, legale e burocratico.

Ha fatto un cambio radicale lasciando un appartamento al settimo piano a Milano per vivere in un paesino ligure in altura, in una piccola casa circondata da un ampio terreno coltivato. Come ha preso questa decisione?

La mia scelta è stata maturata in molti anni. L’incontro con persone che vivevano in maniera differente da me, circondate da spazi verdi e con una concezione comunitaria dell’abitare, mi ha fatto realizzare, ai tempi, di essere un uomo di trent’anni che non sapeva riconoscere nessun albero, né capire cosa fosse commestibile o meno. Mi sentivo incompleto, incarcerato, e infine ho ristrutturato questa casa in pietra antica secondo criteri ecologici, autocostruendo poi il mio studio (sempre in accordo con principi totalmente green), con la consulenza e la disponibilità di esperti e amici.

Le mancano i comfort o altro della vita precedente?

Quando devo andare in città per lavoro non sopporto più il caos, gli ambienti chiusi e la puzza di smog, mentre non potrei più fare a meno di trascorrere ore all’aperto, di faticare per coltivare la terra, salire e scendere tante scale (l’unico modo per accedere alla casa), e così sudare sopportando meglio il freddo dell’inverno. Il nostro concetto di comodità è una deformazione culturale, ho totalmente rimodellato l’idea di comfort, in questi anni: senza alcun dubbio, ci ho solo guadagnato.