Vegolosi

Le emissioni di gas serra di carne e latte se la giocano con quelle dell’Arabia Saudita

Si stima che il settore zootecnico mondiale sia responsabile di una percentuale compresa tra il 12% e il 19% delle emissioni totali di gas serra (GHG) causate dall’uomo, il che lo rende uno dei settori con le maggiori emissioni al mondo. E già questo dovrebbe metterci in allarme non poco, o quanto meno farci riconsiderare l’idea che il problema vero non siano solo le auto e gli aerei, che pure hanno un ruolo.

Ma il dossier ‘Arrostendo il Pianeta: le grandi emissioni dei grandi della carne e dei latticini” realizzato da Foodrise, Friends of the Earth U.S., Greenpeace Nordic e Institute for Agriculture and Trade Policy, in vista della Conferenza delle Parti sul Clima, la Cop 30, che si terrà in Brasile dal 10 al 21 novembre, scende in ulteriori dettagli con numeri che raccontano molto.

Tra il 2022 e il 2023, le 45 maggiori aziende produttrici di carne e latticini al mondo hanno generato complessivamente oltre un miliardo di tonnellate di emissioni di gas serra (in CO₂ equivalenti): un dato che non sembra voler dire molto in assoluto. Ma ecco che un confronto, come sempre, aiuta più di mille virgole e decimali: queste aziende in un anno producono insieme più gas serra dell’Arabia Saudita – non propriamente un’isola verde, bensì il secondo produttore di petrolio globale. Ma non solo, perché anche le emissioni di metano di queste aziende non scherzano: sempre in un anno le 45 corporation hanno generato più metano di quello generato da tutti i Paesi di Unione Europea e Regno Unito (dati relativi al 2023). 

Greenpeace spiega che “JBS, Marfrig, Tyson, Minerva e Cargill (aziende che producono carne, ndr) hanno prodotto insieme circa 480 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra nel 2023, superando quelle generate dai colossi petroliferi Chevron, Shell o BP. Se tutte le aziende considerate nello studio fossero un Paese, si legge nel report, rappresenterebbero la nona nazione al mondo per emissioni di gas serra”.

“La ricerca – spiega Foodrise – dimostra ripetutamente che i cambiamenti nella dieta nei paesi ad alto reddito rappresentano la principale opzione per ridurre le emissioni del sistema alimentare. Secondo un recente studio, si stima che l’83% della produzione mondiale di carne e il 77% del consumo globale di carne avvengano nei paesi ad alto e medio-alto reddito, rispetto a solo il 2% nei paesi a basso reddito”.

Ovviamente, come accade da qualche anno, chi si occupa di denuncia su queste tematiche fondamentali cerca di sottolineare che la questione del cambiamento non è legata solo all’iniziativa dei cittadini (che pure è fondamentale in un sistema capitalistico) ma che anche i decisori politici hanno un ruolo decisivo. Una delle questioni messe sul tavolo dalle associazioni promotrici del dossier, è per esempio quella di “Introdurre una regolamentazione per garantire che i costi ambientali e sociali delle grandi aziende di carne e latticini, attualmente pagati dai cittadini, siano invece pagati dalle aziende inquinanti, secondo il principio “chi inquina paga”.

Nel frattempo, una realtà come JBS, la più grande azienda di lavorazione della carne del mondo, ha da poco creato una nuova società, la Vegetarian Butcher Collective che porterà sul mercato europeo prodotti di origine vegetale grazie alla fusione societaria di due marchi storici della produzione veg: The Vegetarian Butcher e Vivera. In più sempre JBS sta lavorando anche sul fronte della carne coltivata. Questi dati ci riportano ad un tema: quello dell’assorbimento da parte del sistema neoliberista di tutte le proposte alternative al sistema stesso. Inizialmente considerate “devianti”, queste vengono “acquisite” e capitalizzate qualora siano interessanti e valide a livello economico. Un sistema per “distruggere” la produzione dell’interno? Forse, ma i numeri di chi sceglie di non mangiare cerne e latticini nella parte ricca del mondo è ancora troppo, troppo piccolo.