Vegolosi

I pesci pensano, si organizzano e soffrono come noi: le prove di uno studio

I pesci sono in grado di pensare? Hanno la capacità di immagazzinare ricordi? Sanno riconoscere le zone del mare, del fiume o del lago in cui è meglio riprodursi? Ma soprattutto i pesci sentono dolore? A queste domande si è data una risposta scientificamente valida e critica.

Sebbene esistano più di trentamila specie di pesci – un numero di gran lunga superiore a quello di tutti i mammiferi, uccelli, rettili e anfibi messi insieme – raramente si prende in considerazione il modo in cui i singoli pesci pensano, sentono e si comportano. Risulta infatti difficile decifrare il comportamento di un pesce e quindi il modo in cui manifesta le sue emozioni.
Ma le ricerche ci mostrano la vera natura dei pesci. L’idea che essi siano solo macchine per l’alimentazione è totalmente infondata e priva di senso: i pesci sono esseri senzienti, consapevoli, sociali e persino, per certi aspetti, machiavellici, proprio come noi.

I pesci? “Sono machiavellici”

Il celebre etologo Jonathan Balcombe, nel best seller “What a fish knows” (titolo purtroppo non disponibile in italiano al momento), si pone come obiettivo quello di condurre il lettore sotto la superficie del mare, attraverso corsi d’acqua ed estuari e di passare dall’altra parte del vetro dell’acquario per rivelare le sorprendenti capacità dei pesci. Balcombe mostra come le comunità ittiche siano caratterizzate da azioni di pianificazione e caccia, abbiano al proprio interno dei particolari codici di comportamento legati ai rituali di corteggiamento e siano regolate anche da punizioni ai danni di chi ha ingannato un altro componente della società. I pesci usano strumenti di cooperazione, creano alleanze e sono in grado di acquisire conoscenza dei luoghi in cui vivono, a partire dalle pozze poco profonde fino agli abissi dell’oceano.

Se abbracciamo una visione più  consapevole della complessità del mondo marino, la domanda che sorge spontanea è la seguente: i pesci sono in grado di provare dolore? Secondo la famosa biologa marina Lynne Sneddon, la risposta è sì e la dimostrazione è avvenuta tramite un importante studio per la rivista “Transazioni filosofiche della Royal Society B”, all’interno di una serie intitolata “Evoluzione dei meccanismi e dei comportamenti importanti per il dolore”. In particolare, insieme al suo team di ricerca dell’Università di Liverpool, la biologa ha condotto una serie di rilevazioni riguardanti ben 98 diversi stadi del dolore dei pesci ed è giunta alla conclusione che questi provano dolore fisico in maniera analoga ai mammiferi e quindi anche a noi esseri umani.

In che modo i pesci esprimono sofferenza?

Per esempio, a causa del male prolungato, sviluppano sintomi quali l’iperventilazione oppure cambiano atteggiamento nei confronti della situazione o dell’oggetto che ha determinato lo sviluppo del dolore. Il Cymatogaster aggregata è  un pesce persico marino che si nutre per suzione. Se viene catturato all’amo e poi è rilasciato, mostra una maggiore inappetenza. Se invece viene pescato in modo “indolore” e poi liberato, le sue abitudini alimentari non cambiano. Ciò vale anche per i pesci rossi che spesso vivono all’interno di un acquario domestico: se sottoposti a stress fisico, tendono a non ritornare per almeno tre giorni nello stesso luogo in cui hanno provato dolore, perché lo ricollegano al trauma subito.
Inoltre, quando i pesci vengono colpiti in una particolare area del corpo, tendono a sfregarla come a cercare di lenire la sofferenza fisica.

Anche se una recensione dell’Università del Wyoming nel 2013 ha concluso che è improbabile che i pesci avvertano dolore, poiché non hanno una neocorteccia altamente sviluppata necessaria per comunicare tale percezione al cervello, la dottoressa Sneddon ha dimostrato come i pesci, se sottoposti al dolore, manifestano cambiamenti nel comportamento quale per esempio la riduzione dell’attività dell’area offesa. Ciò però non si verifica nei soggetti a cui viene somministrato un antidolorifico. L’efficacia dei farmaci contribuisce quindi alla conferma che anche le basi molecolari della percezione del dolore sono simili a quelle che noi stessi conosciamo.

“Se accettiamo il dolore sperimentato dai pesci, questo ha importanti implicazioni sul modo in cui li trattiamo”- Lynne Sneddon.

La biologa nei suoi studi fa riferimento in particolare alla condizione dei pesci in cattività.
Proprio sulle condizioni dei pesci negli allevamenti intensivi ci siamo occupati in un articolo che, grazie al contributo delle inchieste dell’associazione Essere Animali, mette in luce come la maggior parte dei metodi utilizzati in fase di abbattimento provochi dolore profondo e sofferenza prolungata nei pesci, destinati spesso a una lenta agonia in vasche strette e sovraffollate.

Già nel 2014 la biologa Victoria Braitwaite, della Penn State University, durante un’intervista al programma Newsnight della BBC, aveva dichiarato: “Sempre più persone cominciano ad accettare un fatto inequivocabile: i pesci provano dolore. Il loro dolore è diverso dal nostro? Per certi versi non viene espresso nel modo che usiamo noi umani, ma è dolore ed è manifesto”. La stessa dottoressa Sneddon ha espressamente sottolineato come l’idea che abbiamo della sofferenza di un pesce sia cambiata notevolmente nel corso degli ultimi quindici anni, grazie agli studi effettuati. “Nel 2003, tenevo conferenze. Quando chiedevo al pubblico ‘Chi crede che i pesci provino dolore?’ si sollevavano solo due o tre timorose mani in platea”, queste le parole della dottoressa, “ma oggi, quando pongo la stessa domanda, quasi tutti alzano la mano. Quasi tutti hanno maturato questa fondamentale consapevolezza”.